Secondo la denuncia di diverse ONG al Consiglio per i diritti umani dell’ONU il 97% dell’acqua nella Striscia di Gaza non è potabile. Euro-Mediterranean Human Rights Monitor e il Global Institute for Water, Environment and Health (GIWEH) denunciano il blocco economico e i ripetuti attacchi militari israeliani come i principali responsabili della crisi idrica a Gaza. Per le ONG l’acqua sta «lentamente avvelenando» i palestinesi di Gaza.
Il problema della mancanza d’acqua non è certo una novità nella Striscia di Gaza, un territorio che da anni sopporta condizioni insostenibili su tutti i fronti. L’abusata immagine della “prigione a cielo aperto” restituisce solo in parte la drammatica quotidianità dei gazawi. In primo luogo perché la condizione di prigionia di massa non è giustificabile da nessuna disposizione del diritto internazionale. E in seconda istanza perché perfino in prigione dovrebbero essere garantiti e tutelati i diritti minimi fondamentali dei prigionieri. Come, ad esempio, il diritto di accesso all’acqua.
Le conseguenze dell’operazione “Guardiani delle mura”
L’assedio israeliano dello scorso maggio, giustificato come reazione alle legittime proteste dei palestinesi per le espulsioni forzate in alcuni quartieri di Gerusalemme, ha ulteriormente aggravato la situazione. Dopo undici giorni di bombardamenti, che hanno ucciso 256 persone, distrutto 258 edifici e devastato i servizi pubblici essenziali, la situazione a Gaza è catastrofica. Oxfam ha denunciato che 400.000 persone sono rimaste senza acqua potabile. I bombardamenti hanno infatti danneggiato le infrastrutture idriche come pozzi, stazioni di pompaggio e trattamento delle acque reflue, impianti di desalinizzazione.
Patologie e danni per l’agricoltura
Anche i consistenti danni agli impianti elettrici acuiscono il problema, perché i liquami non trattati si riversano in mare. Le foto che abbiamo visto quest’estate dei bambini di Gaza mentre giocano al mare sono sì simbolo della straordinaria resilienza del popolo palestinese e forti immagini di speranza. Ma c’è anche qualcos’altro. Secondo Oxfam, le malattie legate all’acqua contaminata rappresenterebbero il 26% delle patologie infantili registrate nell’area.
Nella Striscia di Gaza c’è una sola centrale elettrica e la popolazione può accedere alla corrente solo parzialmente (per circa 8 ore al giorno). Per di più i palestinesi di Gaza sono costretti ad acquistare elettricità da Israele. Ma nemmeno in questo modo si riesce a coprire l’ingente fabbisogno di elettricità degli impianti di desalinizzazione e per il mantenimento degli impianti idrici. Per utilizzare l’acqua, per esempio per fare una doccia, è necessario prima farla bollire. Le grandi quantità di cloro usate per renderla pulita possono infatti provocare danni o malattie della pelle.
Chi può permetterselo compra l’acqua in bottiglia, ma in un contesto come quello della Striscia è quasi un bene di lusso. Per molte famiglie non ci sono che due alternative. Bere l’acqua del rubinetto, con tutti i problemi che ciò comporta, o percorrere chilometri per raggiungere i punti di approvvigionamento idrico pubblici. In questo caso però il rischio sta nella conservazione dell’acqua che, quando non avviene correttamente, può portare alla formazione di batteri.
La scarsità e il problema della contaminazione dell’acqua a Gaza si ripercuote inevitabilmente anche sull’agricoltura. L’economia della Striscia, su cui pesa da quattordici anni il blocco terrestre, navale e aereo imposto da Israele, è totalmente paralizzata.
Sono anni che Israele persegue la politica del water grabbing non solo nella Striscia di Gaza, ma anche nei Territori Palestinesi occupati. Già a partire dal 1995 Tel Aviv ha incanalato l’85% dell’acqua di superficie palestinese verso gli insediamenti illegali dei coloni e verso il proprio territorio. Negando, o limitando fortemente l’accesso all’acqua ai palestinesi, Israele continua il suo gioco al massacro senza bisogno di sprecare una pallottola. Ciò che amareggia, benché, a dire il vero, non stupisca, è l’arbitrarietà dell’Occidente nell’invocare il rispetto dei diritti umani. Che in certi luoghi risultano più facilmente sacrificabili che in altri.
Giulia Della Michelina