Chi ha detto che per conquistare l’uomo o la donna dei propri sogni occorrono per forza bellezza, ricchezza e fama? Il mito di Aconzio e Cidippe dimostra che qualche volta bastano un po’ di ingegno e un pizzico di fortuna. Perché gli Dei aiutano gli audaci, è vero, ma non disprezzano nemmeno chi sa usare bene la propria materia grigia.
Del mito di Aconzio e Cidippe la notizia più antica ci viene dal poeta greco Callimaco (III a. C.) nella raccolta di elegie Aitia. Dei quattro libri originari di cui si componeva la raccolta, tuttavia, sono sopravvissuti pochi frammenti: dei due giovani si legge ai frammenti 67 e 75. Più prodighi di notizie sono i poeti romani Catullo (carme 65) e soprattutto Ovidio, che rende Aconzio e Cidippe gli autori delle epistole XX e XXI della raccolta Heroides.
Ricomponendo il puzzle delle fonti, si può evincere che Aconzio e Cidippe erano due giovani presenti a Delo per la celebrazione di una festività. Di Ceo lui, di Nasso lei, si trovarono vicini durante i riti, si piacquero, si scambiarono diverse occhiate e qualche sorriso furtivo. Lei, però, era inavvicinabile: secondo alcune versioni del mito, perché era una sacerdotessa di Artemide, secondo altre perché era sorvegliata dalla nutrice e dai familiari. Aconzio non si perse d’animo: fin dal primo sguardo, infatti, si era innamorato perdutamente della fanciulla. Pensò e pensò, finché gli venne un lampo di genio. Raccolse da un albero di un vicino frutteto una mela e incise sulla buccia le parole:
«giuro per il santuario di Artemide di sposare Aconzio»
Dopodiché, attese il momento propizio, ossia che la fanciulla fosse nel recinto sacro del tempio per le offerte e le preghiere. A quel punto, fece rotolare con destrezza la mela ai suoi piedi. Cidippe la raccolse e, leggendo incuriosita ad alta voce la scritta, si vincolò inconsapevolmente a lui per sempre con un patto sacro.
Dal vincolo al matrimonio
Tornata a Nasso, Cidippe riprese la propria vita e, poiché era in età da marito, trovato il giusto pretendente il padre gliela concedette in sposa. A ridosso delle nozze, però, la ragazza cadde gravemente ammalata e le celebrazioni si dovettero rimandare ancora e ancora e ancora. L’aspirante marito, pur con la buona volontà, alla fine perse la pazienza e lasciò perdere. Non andò meglio ai due che lo seguirono. Uomini diversi, stessa storia: poco prima delle nozze, la ragazza si ammalava e restava mezzo morta finché i pretendenti non facevano marcia indietro.
Preoccupato per la sorte della figlia (e per le proprie finanze, se avesse dovuto continuare a elargire doti a vuoto), il padre consultò l’oracolo di Delfi. Sentendosi rispondere da Apollo che a impedire il matrimonio di sua figlia erano nientemeno che Artemide e Atena. La prima, perché in suo nome la fanciulla aveva giurato nel tempio fedeltà ad Aconzio. La seconda perché aveva preso in simpatia l’ingegno del giovane di Ceo e lo sosteneva con la propria benevolenza.
Così al padre di Cidippe, dopo lo scorno iniziale, non restò che accettare come genero il ragazzo e le nozze tra Aconzio e Cidippe poterono essere celebrate. E, anche se i poeti antichi non lo dicono, c’è da stare certi che, ben mimetizzate tra i mortali presenti al banchetto, ci fossero anche Artemide e Atena. Felici di brindare alla salute degli sposi.
Aconzio e Cidippe secondo Ovidio
Il ritratto più suggestivo di Aconzio e Cidippe viene, come si anticipava in apertura, dalle Eroidi di Ovidio. Le due epistole in versi, tuttavia, hanno nei due personaggi un’intensità molto diversa per il lettore contemporaneo. La lettera di Cidippe, infatti, appare praticamente una resa. La giovane rimprovera Aconzio per il suo inganno, lo accusa di essere un vigliacco, ma alla fine capitola accettando di essere sua. E forse la modernità straordinaria del testo sta nel riuscire a riprodurre le esitazioni di una vergine piena di dubbi. Nonché le interruzioni date dalla febbre e dal sopraggiungere dei parenti della ragazza, che viene avvertita dalla nutrice complice che fa buona guardia sulla porta.
Ben diverso il testo di Aconzio che, appassionato e disperato, perora la propria causa presso la ragazza scrivendo:
Se amarti è la mia colpa, confesso, sarò sempre colpevole.
E per quanto tu non ti dia, io non smetterò mai di volerti.
Una meravigliosa dichiarazione d’amore, che però in latino suona più perturbante:
si noceo, quod amo, sine fine nocebo,
teque, peti caveas tu licet, usque petam.
Quel “noceo”, infatti, non significa soltanto “sono colpevole”, ma altresì “nuoccio”, cioè “faccio del male”. La china su cui un discorso del genere conduce, è facile vederlo, è ripida. Perché sembra suggerire che amare renda legittimo anche il fare del male, perfino a chi si ama.
Dell’inganno e della redenzione
Il mito di Aconzio e Cidippe va dunque rubricato come una forma particolarmente sottile e perversa di violenza?
In realtà, no. Anzitutto, perché si tratterebbe di sovrapporre una sensibilità contemporanea al mondo dei vissuti e delle relazioni degli antichi, diversissimi da noi sotto questo aspetto. In secondo luogo e soprattutto, d’altra parte, perché è in primo luogo il testo ovidiano a permettere ad Aconzio di redimersi. Il giovane, infatti, nel seguito della missiva a Cidippe scrive:
Io stesso, causa della tua rabbia, la calmerò,
se solo mi darai un’occasione per placarti.
[…]
Sopporterò tutto. Avrò solo paura
che la tua mano, picchiandomi, possa farsi del male.
Aconzio teme per la vita di Cidippe e vorrebbe prendersi cura dell’amata mentre la sua salute si ristabilisce. Questo è sufficiente, essendo Aconzio stesso, sia pure indirettamente, causa della malattia? Probabilmente no. Ma la consapevolezza della colpa è, quantomeno, un punto di partenza. Che, purtroppo, molti uomini contemporanei devono ancora mettersi in cammino per riuscire a raggiungere.
Valeria Meazza