L’accumulo compulsivo è un disturbo applicabile anche al contesto digitale? Per Darshana Sedera e Sachithra Lokuge la risposta è sì e forse sarà uno dei problemi psicologici più diffusi dell’era informatica.
Il fenomeno non è ancora oggetto di studi approfonditi, come dichiarano gli autori dello studio pubblicato in occasione della Conference on Information Systems tenutasi tra il 13 e il 26 dicembre scorso a San Francisco. Anzi, Sedera e Lockuge tengono a sottolineare che il loro lavoro è stato il primo ad aver messo in luce il digital hoarding (accumulo digitale), come è stato nominato. I due autori sono ricercatori della Monash University di Melbourne ed il loro campo di ricerca sono i media digitali e informatici e il loro utilizzo nell’imprenditoria e nell’economia.
Non essendoci studi precedenti sull’argomento, gli autori sono dovuti ricorrere alla letteratura scientifica sul disturbo da accumulo compulsivo, una devianza già ampiamente studiata e nota a psicologi e sociologi: il risultato è stato uno studio interdisciplinare, in cui le scienze umane hanno dato un utile apporto nell’interpretare i dati ottenuti da un campione di 846 persone, cercando di fornire nel contempo un modello a priori di questo disturbo.
I principali esiti che questa ricerca ha dato è che l’accumulo compulsivo di materiale digitale inutile esiste e potrebbe avere gravi ricadute psicofisiche ed economiche sugli individui, analogamente al disturbo già noto, ma è un fenomeno ancora poco sottostimato: i dati digitali fisicamente occupano poco o nessun spazio fisico e comprare un hard disk o una chiavetta USB è una spesa sostenibile e anche gli smartphone ormai hanno una capacità di memoria impressionante. Inoltre, l’esistenza di archivi digitali gratuiti o a pagamento praticamente infiniti come Google Drive o iCloud contribuiscono a sminuire la gravità del fenomeno. Infine, non bisogna dimenticare che anche i social network inducono indirettamente a creare e conservare contenuti digitali inutili, oltre all’accessibilità gratuita o a prezzi bassi a molti contenuti su Internet.
Tre sono i fattori presi in considerazione per indicare l’esistenza dell’accumulo compulsivo: acquisizione di materiale digitale inutile, conservazione massiva del medesimo e difficoltà nell’eliminarlo; in particolare quest’ultima caratteristica è quella che causerebbe stress psicologico, dettaglio analizzato da Sedera e Lokuge secondo i parametri della comunità scientifica e preso come elemento rilevatore della presenza del disturbo da accumulo compulsivo.
Se la disponibilità di memoria non è un fattore scatenante alti livelli di stress nei soggetti intervistati, è stato notato che il livello di stress varia a seconda delle fasce di età prese in esame e anche in base al genere: infatti sembra che la fascia tra i 20 e i 30 anni sia maggiormente soggetta allo stress derivato dal disturbo da accumulo compulsivo e che siano le donne ad esserne più colpite.
La ricerca tra limiti e futuri propositi
Il carattere pionieristico di questa ricerca tuttavia è anche uno dei suoi aspetti limitanti, insieme ad altri fattori che incidono sull’attendibilità oggettiva dei risultati ottenuti. Uno di essi è ad esempio il contesto sociale e geografico del campione demografico scelto, ossia l’Australia, un paese culturalmente occidentale della sfera anglosassone ed altamente sviluppato: questo restringe di molto l’applicabilità delle conclusioni a scenari differenti. Gli autori infatti concludono con un appello alla comunità accademica ad approfondire con altri studi e pubblicazioni questo fenomeno in costante crescita ma purtroppo ancora poco studiato, evidenziando come questo particolare tipo di disturbo da accumulo compulsivo potrebbe essere inscritto tra le malattie mentali in futuro: la ricerca può fornire non solo la fenomenologia, ma anche le soluzioni e le cure per questa possibile malattia dell’età digitale.
Barbara Milano.