Teheran e Riad hanno annunciato il 25 aprile la ripresa delle proprie relazioni commerciali. Il comunicato arriva all’indomani degli accordi tra Iran e Arabia Saudita del 10 marzo di quest’anno, quando i due Paesi hanno annunciato il reintegro dei propri rapporti diplomatici. Gli accordi di marzo segnano un’importante svolta nella geopolitica del Medio Oriente. Ma ancora di più, suscita interesse il soggetto che ha assunto il ruolo di mediatore tra le due capitali, Pechino.
L’avvio delle relazioni commerciali tra Riad e Teheran
Il giornale panarabo Al Arab ha annunciato il 25 aprile che Iran e Arabia Saudita avrebbero dato l’avvio agli scambi commerciali tra i due Paesi. Il quotidiano riprende le parole del Ministro dell’Industria, delle Miniere e del Commercio iraniano Reza Fatemi Amin. “Dopo che i due Paesi hanno concordato, il mese scorso, di riprendere le relazioni – ha detto il funzionario di Teheran – le autorità iraniane competenti hanno concentrato l’attenzione sull’esportazione di merci verso l’Arabia Saudita”. Non è ancora stata reso pubblica la natura degli scambi tra i due Paesi. Né le tipologie di merci che si andranno ad inserire nel nascituro sistema di import-export. Tuttavia, l’11 aprile scorso, il Ministro dell’Economia iraniano Ehsan Khandozi aveva anticipato ad una conferenza stampa l’obbiettivo di portare il valore degli scambi con Riad ad almeno un miliardo di dollari. Per iniziare.
L’annuncio dell’avvio di una rete commerciale tra le due potenze regionali, arriva dopo gli accordi tra Iran e Arabia Saudita siglati il 10 marzo scorso. Accordi dalle importanti ripercussioni economiche nell’area, ma che soprattutto manifestano e contribuiscono ad importanti capovolgimenti nelle relazioni geopolitiche globali, per il modo nel quale hanno avuto luogo.
Gli accordi tra Iran e Arabia Saudita del 10 marzo
Il 10 marzo i giornali di tutto il mondo titolano la notizia del raggiungimento di accordi tra Iran e Arabia Saudita. La volontà delle due cancellerie è quella di riprendere le relazioni diplomatiche interrotte nel 2016, quando a Teheran fu attaccata l’ambasciata saudita. L’attentato era seguito all’esecuzione, a Riad, di un importante leader sciita, religione di stato nella teocrazia iraniana. Quella del 2016 fu in realtà solo l’ultima scintilla che compromise drasticamente i già poveri rapporti tra le due capitali.
I colloqui erano quindi ripresi nel 2021 e, nel marzo di quest’anno, l’annuncio di un’intesa. Il Segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale iraniano, Ali Shamkhani, capo della delegazione di Teheran aveva affermato: “Le relazioni tra Teheran e Riad porteranno allo sviluppo della stabilità e della sicurezza regionale e aumenteranno la cooperazione tra i Paesi del Golfo Persico e il mondo islamico per affrontare le sfide esistenti“.
Oltre alla riapertura delle rispettive ambasciate, gli accordi tra Iran e Arabia Saudita toccano molti e diversificati dossier. Dalla questione dei commerci, ripresa il 25 aprile, allo spinoso tema del nucleare iraniano, alla guerra in Yemen, che vede le due potenze regionali su fronti opposti. C’è poi la questione della lunga scia di proteste che sta colpendo il regime di Khomeini, che l’emittente saudita, in lingua persiana, Iran International ha molto coperto in questi mesi.
Tuttavia, a fare da cornice all’intesa raggiunta, ciò su cui sono realmente puntati gli occhi degli osservatori internazionali, è il contesto globale grazie, o malgrado, il quale è nata. I due Paesi, da anni, non sono semplicemente soggetti locali in contrasto tra loro. Iran e Arabia Saudita rappresentano infatti due diverse fazioni del consorzio internazionale, fazioni dal 2022 sempre più ai ferri corti. Se Riad è da decenni uno dei più importanti alleati americani nell’area, Teheran rappresenta invece nell’immaginario occidentale uno dei più chiari esempi di Paese non allineato e ostile.
L’accordo avrebbe potuto quindi essere un modo per avvicinare agli Stati Uniti uno dei suoi storici avversari attraverso la collaborazione di un fedele alleato. Ma non è andata così. Perché la storica stretta di mano tra il Ministro degli esteri saudita Faisal Bin Farhan e l’omologo iraniano Hossein Amirabdolahian non è stata scambiata a Washington, e non è stata benedetta dal Segretario di Stato dell’amministrazione Biden. Gli accordi tra Iran e Arabia Saudita sono stati firmati a Pechino, sotto lo sguardo compiaciuto del capo della diplomazia cinese Wang Yi.
La traiettoria cinese nella mediazione degli accordi
L’accordo del 10 marzo ha sorpreso il mondo. Non per l’accordo in sé, avviato da molti mesi e ben noto agli addetti ai lavori, ma per il suo contesto. La partecipazione in vece di mediatore da parte della Cina, infatti, è una novità introdotta solo alla fine dell’iter di discussione. Oltre a ciò, questa è la prima volta che Pechino interviene in prima persona in una crisi di sicurezza mediorientale. Il 10 marzo 2023, quindi, segna l’inizio di un nuovo approccio all’estero da parte del dragone, un approccio per il quale mancano termini di paragone. I motivi che hanno spinto la Repubblica Popolare ad assumersi il rischio di una mediazione tutt’altro che facile, il cui naufragio potrebbe intaccare pesantemente la sua immagine di grande potenza in ascesa, sono diversi, e affondano sia nella realtà delle relazioni locali del Paese nel Golfo Persico, sia nel suo posizionamento globale nel prossimo futuro.
Pechino, innanzitutto, ha una grandissima necessità di un Golfo Persico tranquillo. Questo perché dai Paesi ivi affacciati importa più del 50% del petrolio da cui dipende. Oltre a questo, gli investimenti cinesi nell’area sono in continua crescita. Solo negli Emirati Arabi si contano almeno 6000 business riconducibili a cittadini della Repubblica Popolare. Detto molto semplicemente, Pechino ha nell’area molti interessi economici, e vuole assicurarsi in prima persona che siano tutelati. È bene tuttavia ricordare che Battiato si sbagliava, perché non è vero che nel fango delle cifre tutto se ne va. I motivi cinesi che giustificano l’impegno superano tanto la questione economica, quanto l’espressione geografica, pur tenendo conto di entrambe.
Il secondo pacchetto di motivazioni ha un nome preciso: Global Security Initiative. Si tratta del nuovo approccio cinese alla politica estera globale. Non più semplicemente partner commerciale o avversario strategico, a seconda dei punti di vista, ma attore diplomatico di primo piano in grado di promuovere la pax cinese nel mondo, perlomeno quello extra occidentale. E, con la pace, anche il morem, l’ordine. È proprio il capo della diplomazia cinese, Wang Yi, a definire gli accordi tra Iran e Arabia Saudita il primo tassello della GSI, durante la cerimonia della firma. Un ruolo, quello che si appresta ad inseguire a ritmo sempre più serrato nel prossimo futuro, che la mette in diretta competizione, anche su questo fronte, con l’attuale poliziotto del mondo, gli Stati Uniti.
I motivi del favore di Iran e Arabia Saudita verso Pechino
Nonostante siano entrambi Paesi estremamente avversi a Washington, i rapporti tra Pechino e Teheran non possono essere definiti idilliaci. Anzi, negli ultimi anni sono stati particolarmente altalenanti. Solo alla fine dell’anno scorso, per esempio, il Ministero degli Esteri iraniano ha richiamato all’ordine l’ambasciatore cinese Chang Hua per aver messo in dubbio l’integrità territoriale del Paese. Spesso, poi, commentatori iraniani criticano l’affidabilità commerciale della Repubblica Popolare, accusandola di tendere al non rispetto degli impegni presi. Tuttavia queste frizioni non si sono mai tradotte in ostilità. Teheran, al contrario, vede in Pechino il miglior cavallo su cui puntare per uscire dall’angolo dell’isolamento internazionale promosso da Washington. Una maggior presenza cinese nell’area del Golfo, quindi, può essere considerato come il punto di partenza per la normalizzazione dei rapporti con l’estero vicino.
Per quanto riguarda Riad, invece, la mediazione di Pechino è un modo per avvicinarsi politicamente ad un Paese fino ad oggi non ostile, nonostante l’amicizia americana, ma comunque lontano. Questo in previsione dell’annunciato ingresso in qualità di Dialogue Partner dell’Arabia Saudita nella Shangai Cooperation Organization (SCO). La SCO è una grande organizzazione euro asiatica che conta tra i propri membri la Cina, la Russia, l’India, il Pakistan e, dal maggio 2023, anche l’Iran. Nonostante il peso di alcuni dei membri effettivi nominati, la SCO non ha un vero potere decisionale nei confronti delle politiche degli stati membri. Tuttavia resta un consorzio ristretto che permette di forgiare legami di amicizia o partenariati commerciali tra Paesi altrimenti distanti dalle rispettive aree di relazioni.
Presto l’Arabia Saudita entrerà a farne parte, in qualità di Dialogue Partner, un “partecipante esterno”. L’idea di Riad è quindi quella di un avvicinamento alla principale potenza della SCO, in previsione di accelerare la propria nomina a membro effettivo e cavalcare l’influenza del dragone per raggiungere i dinamici mercati dell’Asia Centrale, al momento fuori dalla sua rete economica. Il tutto, è bene sottolineare, mantenendo, per quanto sarà possibile, i propri buoni rapporti con Washington.
In conclusione si può affermare che il favore iraniano nei confronti della mediazione cinese è immagine della speranza di una maggiore presenza di Pechino nell’area. Il fallimento degli accordi sul nucleare con gli Stati Uniti ai tempi della Presidenza Trump ha abortito qualsiasi speranza di ripresa. L’isolamento che ne è seguito ha accelerato la crisi d’immagine del Paese. Crisi le cui conseguenze hanno ormai lasciato i meeting internazionali per raggiungere le strade, da mesi in preda al caos delle proteste. L’arrivo di un nuovo fulcro di relazioni nella regione, più compiacente, è diventata quindi una questione di sopravvivenza per Teheran.
Per Riad, invece, è una scommessa (fatta tra l’altro su entrambi i cavalli, vista la continuazione dei rapporti con Washington). La scommessa che il termine di questa fase storica, quando le crisi globali attualmente in corso saranno placate (e forse sostituite da altre non ancora immaginabili), il sole sorga su un mondo multipolare. Un mondo ipotetico, nel quale tuttavia l’Arabia Saudita ha già messo un piede, come in una staffa. Mezzo piede, in realtà.
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