Lo smisurato arrivo di migranti sulle coste italiane in questi mesi estivi è solo un anticipo di quello che ci attende nel prossimo futuro, quando l’ondata di profughi provenienti dalle zone di guerra mediorientali e da quelle dimenticate dell’Africa rovescerà nel vecchio continente milioni di persone. Negli ultimi anni, l’aumento dei flussi migratori ha messo in crisi i due principali modelli di integrazione, adottati dai Paesi europei (quello «assimilazionista» e quello «multiculturalista») mentre i paesi coinvolti nell’accoglienza hanno continuato a muoversi in ordine sparso spesso considerando le migrazioni come un evento emergenziale da reprimere piuttosto che un fenomeno strutturale da governare.
L’ondata di profughi provenienti dalle zone di guerra mediorientali, in particolare dalla Siria e dall’Iraq, e dall’Africa, nonché di migranti economici che fuggono da situazioni endemiche di povertà e di violenza, negli ultimi cinque anni ha raggiunto il territorio europeo in misura consistente, rendendo la rotta del Mediterraneo centrale la più pericolosa al mondo. Sul versante politico, l’accoglienza e la gestione dei migranti in Europa è impantanata da anni sul binario morto della questione securitaria ed emergenziale, ottima da brandire in campagna elettorale ma poco funzionale quando si tratta di affrontare il problema in modo costruttivo.
In tutti i governi del mondo, temi congiunti, politicamente bollenti, della difesa dei confini nazionali e dell’identità culturale continuano a giocare un ruolo non indifferente nell’evoluzione delle politiche migratorie. E la questione dell’integrazione delle persone che, per i motivi più disparati, si trovavano a varcare (dentro e fuori dalla legalità) le frontiere dei Paesi europei, resta un tema fortemente divisivo che porta a privilegiare l’approccio della sicurezza a scapito dell’accoglienza e della redistribuzione.
In questi anni, nel tentativo di arginare il fenomeno migratorio, i governi europei si sono mossi in ordine sparso pestandosi i piedi a vicenda e sperimentando il fallimento dei modelli di integrazione adottati nella maggior parte dei paesi destinatari dei flussi migratori come la Francia, l’Inghilterra, la Germania e l’Italia. Questi sono fondamentalmente due: il modello «assimilazionista» e quello «multiculturalista».
Il contesto normativo che disciplina l’accoglienza dei migranti in Europa
Se diamo uno sguardo alle basi giuridiche comuni, in riferimento al diritto internazionale (in particolare alla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951) e al diritto UE (Carta dei diritti fondamentali, ma anche il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e il pacchetto di direttive riguardanti accoglienza, qualifiche e rimpatri), è abbastanza chiaro come ad oggi non solo non esista un sistema d’accoglienza comune tra i gli Stati membri ma non vi è neppure la possibilità per tutti di beneficiare del diritto alla mobilità allo stesso modo all’interno dei Paesi dell’unione. Ad oggi, sul fronte dell’immigrazione regolare, spetta all’UE definire le condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di Paesi terzi che entrano e soggiornano legalmente in uno degli Stati membri, anche per quanto concerne il ricongiungimento familiare.
Nel corso degli anni i tentativi d’intervento sul tema non sono mancati ma i risultati sono stati finora deludenti. In mancanza di aggiornamenti sostanziali, la normativa europea sul tema rimane fondamentalmente ancorata al cosiddetto sistema Dublino, firmato nel lontano 1990 e non più adatto a fornire una protezione adeguata ed efficace a coloro che raggiungono il territorio europeo.
Perciò, nonostante diversi sforzi di riforma (1999, 2003 e 2013), il principio cardine che regola i flussi in entrata nell’UE è rimasto quello del “Paese di primo arrivo“, ovvero quello in cui i migranti entrano quando varcano la soglia dell’Unione e che è responsabile delle eventuali richieste di protezione internazionale.
Alcuni modelli a confronto: «assimilazionismo» e «multiculturalismo»
Sul piano pratico, la mancanza di un coordinamento efficace a livello comunitario per la regolamentazione del fenomeno migratorio, ha impedito ai singoli governi di avviare un processo d’integrazione degli immigrati realmente efficace, inteso come obiettivo consapevole di un insieme di politiche perseguite “dall’alto” e finalizzato a trarre effettivi vantaggi dall’ingresso di nuove persone nei loro confini nazionali.
Per cercare di far fronte al fenomeno migratorio, i Paesi europei hanno quindi deciso di continuare ad adottare modelli di accoglienza rispondenti alle loro differenti tradizioni culturali e giuridico-istituzionali e perciò difficilmente flessibili nell’adattarsi alle differenti evoluzioni del fenomeno migratorio che negli ultimi anni ha cambiato costantemente la propria natura, nelle cause, nei numeri e persino nelle rotte.
I modelli di integrazione adottati da diversi anni in Paesi come la Francia, l’Inghilterra e la Germania, sono fondamentalmente due: il modello «assimilazionista» e quello «multiculturalista». Il primo modello è stato applicato per lungo tempo in Francia ed è fondato sul principio di laicità quale fulcro della cittadinanza politica e dell’appartenenza nazionale.
Il modello assimilazionista tende ad inglobare il migrante nella cultura del Paese accogliente e perciò predilige la logica dell’uguaglianza tra gli individui piuttosto che il riconoscimento di diritti collettivi alle minoranze. Per quanta riguarda l’inclusione, questa avviene, invece, su base individuale attraverso un accesso relativamente facile alla cittadinanza, fondata sullo ius soli . L’interazione è favorita dalla condivisione della stessa lingua, dall’accettazione degli stessi princìpi, a partire da quelli repubblicani e nazionali, e dall’accesso allo stesso sistema di formazione scolastica.
Tutt’altra strada segue , invece, il modello multiculturalista che si basa sul riconoscimento dei diritti dell’individuo e di quelli dei gruppi e delle comunità che abitano in un Paese, garantendo al migrante il mantenimento della propria sfera culturale e tradizionale all’interno del gruppo di appartenenza nel quale si alimenta la propria identità.
Il modello assimilazionista alla prova dei fatti, il caso della Francia
Analizzare i vari modelli d’accoglienza europei significa anche andare a ritroso tra passaggi storici che interessano l’evolversi delle società accoglienti stesse e che, per certi versi, rispondono alle dinamiche proprie del periodo coloniale condiviso da alcune di queste nazioni come nel caso della Francia.
Come detto, la via francese all’integrazione segue la logica di uguaglianza tra gli individui e al principio di laicità dello stato. Questo significa che la Repubblica francese può vietare alle donne musulmane di indossare il velo integrale in alcuni luoghi pubblici, come scuole, uffici aperti ai cittadini proprio per salvaguardare i diritti che sono riconosciuti all’individuo in quanto tale e non a gruppi sociali o a comunità.
Tuttavia, per funzionare in modo efficace, questo sistema deve essere associato a politiche assistenziali in supporto delle categorie più deboli della società mentre le banlieues delle maggiori città francesi ci raccontano una realtà totalmente differente in cui le stridenti disparità di status sono diventate negli anni il principale motivo di tensioni sociali e scontri armati.
Il modello di integrazione assimilazionista ha iniziato a mostrare i primi segni di debolezza già agli inizi del secolo quando la crisi economica mondiale del 2008 ha portato il governo francese ad adottare delle politiche sempre più restrittive in materia di immigrazione, ponendo dei limiti al principio di libera circolazione delle persone appartenenti alla zona Schengen e, in ultimo, pattugliando le proprie frontiere, in particolare quella con l’Italia, dalle quali arrivano la maggior parte dei profughi che attraversa il Mediterraneo.
Il modello di integrazione multiculturalista
Spesso, quando si parla di migranti il termine integrazione appare troppo obbligante nei confronti della libertà di scelta e delle identità culturali di coloro che chiedono asilo nei paesi di prima accoglienza e anche il modello assimilazionista diventa estremamente riduttivo rispetto alla complessità delle situazioni pratiche e dei contesti nazionali nel quale viene applicato.
Per evitare le ristrettezze interpretative del modello assimilazionista, alcuni paesi hanno sperimentato nel tempo un altro tipo di integrazione basata sul riconoscimento, anche giuridico, dei diritti dell’individuo e dei gruppi e delle comunità che vivono nel Paese ospitante, quello multiculturalista. Secondo il sociologo Michael Barton, l’obiettivo di questo modello è di «permettere ai membri delle minoranze etniche di partecipare liberamente alla vita economica, sociale e pubblica del Paese, conservando però la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria lingua e i propri valori».
In linea di principio, nei Paesi che adottano il modello multiculturalista, il concetto di libertà non è legato all’idea di uguaglianza ma a quello di autonomia e di riconoscimento dei diritti collettivi. A differenza di quanto avviene nei paesi in cui vige il modello assimilazionista, nell’integrazione multiculturalista la tenuta sistemica della società è il naturale prodotto del riconoscimento di identità che, per il solo fatto di esprimersi liberamente nella sfera pubblica, non assumono tratti conflittuali inconciliabili con la cultura del paese d’adozione.
Un esempio eloquente di questo modello di accoglienza è riscontrabile nel valore legale che il Regno Unito ha riconosciuto alle sentenze emesse dai tribunali shariatici su alcune materie riguardanti la vita della comunità, come ad esempio il diritto di famiglia e quello ereditario. Questa facoltà è stata riconosciuta alla comunità musulmana dall’Arbitration Act del 1996 con l’unica condizione che le parti convenute in giudizio accettino l’autorità del giudice-arbitro chiamato a emettere la sentenza, la quale, naturalmente, in nessun caso può violare i diritti fondamentali dell’uomo.
Tuttavia, anche questo modello ha sviluppato nel corso degli anni diverse debolezze e inadeguatezze. I primi sintomi della crisi dell’impianto multiculturalista risalgono al 2001, quando in alcune città industriali del nord dell’Inghilterra si verificarono gravi incidenti causati da odio razziale; ma a dare il colpo mortale al sistema multiculturalista nel Regno Unito è stato il premier conservatore David Cameron in persona che nel 2011 in un discorso alla conferenza della sicurezza a Monaco di Baviera, denunciò senza attenuanti «l’ideologia multiculturale», auspicandone la fine.
Integrazione e migrazione, il caso dell’Italia
A differenza dei maggiori Paesi europei, l’Italia non ha un modello di integrazione vero e proprio perché il fenomeno dell’immigrazione nel nostro paese è relativamente recente e poi perché i governi italiani hanno sempre guardato alla gestione dei flussi migratori come a un problema transitorio ed emergenziale da derubricare alla voce “ordine pubblico”.
Nella pratica, nel nostro paese si è quindi affermato un modello ibrido di integrazione, assimilazionista negli intenti e multiculturalista negli effetti, che spesso ha inglobato elementi negativi dell’uno e dell’altro modello. In questo contesto piuttosto confuso, è stata inoltre sottovalutata la risorsa della seconda accoglienza che continua ad essere fortemente sottodimensionata rispetto alle necessità, soprattutto da quando l’Italia, da semplice punto di transito verso le ambite mete nordiche (la Germania e la Svezia, in particolare), è diventata «Paese obiettivo» dei migranti che attraversano il Mediterraneo.
Questo stato di cose ha contribuito ad alimentare nell’opinione pubblica la paura ingiustificata di un’invasione da parte di immigrati e profughi provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. E anche dopo gli ultimi arrivi di massa a Lampedusa dei giorni scorsoi, da Palazzo Chigi il mantra dettato dal Presidente Giorgia Meloni resta sempre lo stesso: correre ai ripari prima che il fenomeno sia ingovernabile, puntando su respingimenti e rimpatri.
Governare i flussi migratori è il grande tema del nostro secolo e la posta in gioco è altissima non solo per il nostro paese ma per tutta l’Ue: nei prossimi anni, gli italiani, come del resto tutti i cittadini europei, dovranno fare i conti con il rimescolamento identitario che appare oramai inevitabile. In Italia, la politica e la società civile non possono più chiudere gli occhi su questa realtà: le migrazioni sono un fenomeno da governare responsabilmente e l’integrazione è un processo da implementare e sul quale scommettere.
Dall’Europa invece ci si attende un impegno maggiore nel dare esecuzione agli accordi presi dai governi in sede comunitaria sulla ripartizione delle quote degli immigrati o nel ricontrattarli in modo responsabile. A livello politico il primo grande passo da fare è superare l’accordo di Dublino per lasciare da parte gli egoismi nazionali e gestire insieme agli altri Paesi un fenomeno che sta già divenendo ingestibile e che rischia di diventare esplosivo. Concetto ribadito nei giorni scorsi anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Tommaso Di Caprio