La situazione in Iran non conosce requie, e la chiusura di internet è solo la punta dell’iceberg. Gli eventi delle ultime settimane sembrano dipingere un quadro dalle tinte sempre più scure. Occorre in questo caso fare un breve passo indietro, poi, riflettendo sul presente, valutare i possibili scenari del prossimo futuro.
L’antefatto: crisi interna e sanzioni esterne
Per oltre 100 città iraniane l’inizio del calvario è iniziato lo scorso venerdì 15 novembre, quando sono scoppiate proteste per l’aumento del prezzo della benzina in tutto il Paese. Pur annullate nel 2015 in un accordo sul nucleare, l’amministrazione Trump ha deciso di reintrodurre sanzioni all’economia iraniana, nonostante il Paese fosse già in difficoltà.
Prima 250 litri di benzina al mese costavano circa 25 centesimi di euro al litro; da ora invece acquistare fino a 60 litri di benzina al mese costa circa 40 centesimi al litro.
In ottobre Tehran aveva dovuto fare i conti con Libano e Iraq, che chiedevano un ridimensionamento della pressione dell’Ayatollah sulle loro decisioni nazionali. Poi, rivolgendosi a questioni interne, Khamenei ha bollato i manifestanti come “criminali” e puntato il dito contro potenze straniere interessate a impadronirsi del petrolio, approfittando di un Iran destabilizzato. Egli ha inoltre difeso le decisioni prese: l’approvazione unanime di presidenza, magistratura e parlamento ne conferma la legittimità. Eppure, proprio alcuni membri quest’ultimo organo di governo hanno rassegnato le proprie dimissioni per un’apparente mancata consultazione del parlamento.
La violenza non sembrava accennare a smettere, le fonti di pressioni che gravano sul Paese erano troppe. Invece di tenere il piede in due scarpe, bisognava che Tehran iniziasse a fare contento almeno uno dei due schieramenti maggiormente coinvolti: il suo stesso popolo e gli Stati Uniti. Cedere terreno era fondamenteale per calmare l’imperversare di malcontento e violenze.
La chisura di internet: quel famigerato venerdì
Con l’intensificarsi delle proteste in strada, i provider di servizi telefonici iraniani, facenti capo al TIC (Telecommunications Company of Iran), hanno iniziato il blocco al traffico internet. Lo scopo? Evitare che i manifestanti potessero organizzarsi, condividere messaggi o caricare video sugli sviluppi nelle strade.
Fin da subito, la mossa dell’operatore telefonico nazionale è stata additata dagli osservatori come estremamente calcolata. È parso infatti assai sospetto che, nelle ore precedenti all’effettiva chiusura della connessione, processo durato circa 24 ore, le forze dell’ordine fossero già schierate in strada.
Naturalmente, si è fatto in modo che il TIC riservasse connettività ad alcune specifiche istituzioni e figure di spicco: funzionari del governo, organi di stampa allineati, alcune università e – per evitare una vera e propria implosione – anche ospedali e banche. Al di fuori di questa stretta rete privilegiata, il mondo esterno doveva affidarsi alle reti filogovernative, il cui pugno teneva in scacco l’intero Iran.
Il conto delle vittime, lievitato a dismisura col passare dei giorni, ha raggiunto cifre spropositate: oltre 200 morti, circa 3000 feriti e più di 5000 arrestati.
Date le premesse, non si fatica a trarre preoccupanti conclusioni. Da un lato, un Paese più a lungo offline avrebbe dimostrato l’incapacità del governo di contenere le proteste, aprendo quindi a una stagione catastrofica in un Paese già in ginocchio. Dall’altro, un rapido ripristino della connessione internet avrebbe significato una maggiore velocità della polizia nel soffocare nel sangue la voce del popolo.
Il ritorno della rete
Si è dovuto aspettare fino al 20 novembre affinché la maggior parte degli accessi a internet fosse ripristinata. Probabilmente anche sulla scorta delle dichiarazioni del segretario al tesoro statunitense, Steven Mnuchin, il quale, il giorno precedente, aveva annunicato nuove sanzioni per l’Iran.
Il funzionario americano ha infatti accusato il ministro delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, Mohammad Java Azari Jahromi, di essere il responsabile di questa “cenura su larga scala”. Sono andati così in secondo piano i veri artefici della chiusura di internet: i capi delle forze di sicurezza e le “guide supreme”, l’Ayatollah Khamenei e il predsidente Rouhani.
Jahromi non ha usato mezzi termini nella sua replica a Mnuchin. Egli ha affermato che l’accesso alla rete continuerà a essere sostenuto, nonostante i tentativi degli Usa di fermare lo sviluppo dell’Iran. Ma non si è fermato lì, tirando anche in ballo le sanzioni al settore sanitario che hanno già causato la morte di innumerevoli bambini in tutto l’Iran.
Un modus operandi unico nella censura online
Il metodo utilizzato da Tehran per attuare la chiusura di internet, nel panorama delle misure intraprese da governi autoritari, si distingue per alcune caratteristiche particolari. Diversamente dal solito, non c’è un unico interruttore che il leader di turno deve premere per far calare il sipario.
La Cina è l’esempio più lampante in questo contesto, avendo programmaticamente architettato un’infrastruttura di connessioni subordinata al controllo governativo. L’Iran ha seguito invece un iter diverso, coinvolgendo molteplici operatori privati che man mano si sono visti inglobati nella rete dello Stato.
Nel corso degli ultimi dieci anni infatti, il regime iraniano ha concentrato i propri sforzi al fine di realizzare una struttura intranet centralizzata diversa dalle altre. Capace sì di fornire ai cittadini i vari servizi del web, ma al prezzo di avere voce in capitolo su ogni tipo di contenuto all’interno della rete, nonché limitando l’influsso di informazioni da fonti esterne al Paese.
Il cosiddetto “National information network”, o SHOMA, diretto da ex funzionari del governo, sembra aver in ultima analisi aver avuto successo nella sua missione. Predicando una maggiore sicurezza sia in ambito privato che pubblico, ha garantito sempre più controllo sulla connettività.
Tuttavia, le Nazioni Unite hanno bollato senza se e senza ma questa chiusura di internet come censura e violazione dei diritti umani. Eppure sono numerosi i governi che si sono spinti ai limiti delle restrizioni nel campo delle connessioni, senza però mai incappare in vere e proprie ripercussioni da parte della comunità internazionale.
“Spesso chiudere internet serve solo a far scendere la gente in strada”
Da sempre avvocato dei diritti umani, Adrian Shahbaz, a capo dell’indipendente Freedom House, ha specificato che la “pressione di un pulsante” è solo l’inizio. Non sempre i regimi autoritari riescono a ottenere il risultato desiderato grazie alla chiusura di internet. Essa può implicare infatti una limitazione alla sorveglianza digitale e anzi favorire cameratismo vis à vis tra i manifestanti.
Pionieri della censura online
Il regime di Tehran non è nuovo a iniziative come questa. Già nel 2009, a seguito della contestata rielezione dell’ex presidente Ahmadinejad, la banda in tutto il Paese aveva subito gravi rallentamenti, una versione più soft di quanto successo negli scorsi giorni. Nel 2011 poi si registrò un altro tentativo di strangolare le comunicazioni online, questa volta in occasione di un’ondata di proteste nell’intero territorio nazionale. Da allora il fenomeno si è ripresentato nel 2017, per continuare nel 2018, con svariati blackout dei social media Instagram e Telegram.
Non è quindi né una novità dell’ultimo periodo né tantomeno un caso isolato.
Ma ci sono altri esempi di questo trend, assai diffuso tra i governi contemporanei (più o meno dichiaratamente) autoritari. Sicuramente il caso dell’Iran mostra evidenti similitudini con il Great Firewall di fattura cinese. La “muraglia” digitale è ormai operativa da anni, solo ultimamente minata da falle che mettono a nudo scandali quali la persecuzione degli Uiguri.
Simile ai precedenti è Runet, la versione russa di internet, progetto del Cremlino volto a proteggersi da cyberattacchi da parte degli Stati Uniti, così è stato dichiarato. In Russia si sta inoltre discutendo un’altra preoccupante risoluzione, che darebbe al governo l’autorità di bloccare il traffico proveniente dall’esterno “in casi di emergenza”. I parametri così imposti agli operatori faciliterebbero l’esecuzione di una chiusura di internet come quella operata dall’Iran, bypassando persino lo stallo di 24 ore.
La libertà in rete promossa dalla comunità internazionale sta venendo manipolata proprio dai Paesi in prima linea nella manipolazione della rete a proprio vantaggio. Questo è l’obiettivo dei regimi: mettere un bavaglio sulla bocca dei propri cittadini e sbarre ai propri confini.