“Nei documenti abbandona l’italiano. Resa agli anglicismi”
Questo è il verdetto pronunciato dall’Accademia della Crusca nei confronti del Miur. Tale severo giudizio deriva dall’analisi che il Gruppo Incipit della Crusca ha condotto sul Sillabo programmatico per l’educazione all’imprenditorialità nelle scuole secondarie di secondo grado, pubblicato a marzo 2018, ovvero lo scorso mese. Il Sillabo presenta tutti i sintomi di un “abbandono dell’italiano” da parte del Ministero dell’Istruzione, in particolare dal suddetto Sillabo si evince che
“Da team-building a design thinking, il ricorso all’inglese è sovrabbondante e spesso inutile”.
E il Gruppo Incipit sottolinea che
«Più che un’educazione all’imprenditorialità, questo documento sembra promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana».
La risposta della ministra Fedeli all’Accademia della Crusca
Il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli non ci sta e non accetta le critiche della Crusca e in una nota risponde così:
“Non capisco, sinceramente, da quali documenti o atti del Miur ricaviate la presunta volontà ministeriale di ‘promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana’. È sbagliato, secondo me, porre in alternativa l’italiano – il cui valore va non solo difeso, ma anche consolidato e promosso, come ha fatto il Ministero che ho avuto in quest’ultimo anno e mezzo l’onore di guidare – e l’inglese, che ritengo debba diventare lingua obbligatoria fin dalla scuola dell’infanzia, insegnato da docenti madrelingua. La presenza di alcuni termini inglesi, all’interno di un documento di 11 pagine e composto da 3.124 parole, difficilmente potrebbe sorreggere un intero modello linguistico-concettuale.
L’utilizzo di termini stranieri si rivela funzionalmente necessario quando il “prestito” consente una funzione designativa del tutto inequivoca, specie se si accompagna all’introduzione di nuove “cose”, nuovi “concetti” e delle relative parole.
Non vi sfuggirà che il ricorso a termini stranieri è tutt’altro che “inutile” (come scrivete) qualora ci si riferisca ad ambiti strettamente specialistici. Nella storia delle lingue è sempre stato e sempre sarà così. Cosa sarebbe stato l’italiano senza i prestiti arabi o senza gli stessi latinismi?”
Ma proprio qui sta il nodo della questione: ciò che l’Accademia della Crusca contesta è proprio l’eccessivo ricorso ai prestiti linguistici, in particolare agli anglicismi, a discapito dei termini italiani. Seguendo le indicazioni scritte nel Sillabo, a detta del Gruppo Incipit, sembra che
“per imparare a essere imprenditori non occorra saper lavorare in gruppo, bensì conoscere le leggi del team building; non serva progettare, ma occorra conoscere il design thinking, essere esperti in business model canvas e adottare un approccio che sappia sfruttare la open innovation, senza peraltro dimenticare di comunicare le proprie idee con adeguati pitch deck e pitch day”.
E dato l’alto tasso di termini inglesi i linguisti della Crusca evitano perfino di proporre alternative, perché sarebbe più opportuno “tradurre l’intero documento” e chiedono al Miur di avere più rispetto e considerazione per la lingua e la cultura italiana.
L’itanglese: la lingua italiana del futuro?
Ormai da diversi anni linguisti ed esperti in comunicazione stanno esaminando l’evoluzione della lingua italiana con l’avanzare inesorabile della tecnologia e dell’inglese nelle vite di ognuno di noi. Cosa ne sarà dell’italiano? Se è vero che per i termini relativi al mondo dell’informatica non esistono corrispettivi in italiano e bisogna, per cause di forza maggiore, ricorrere alle parole inglesi; perché adoperiamo anglicismi anche quando l’equivalente italiano esiste? A rispondere a questa complessa domanda è stato Antonio Zoppetti, esperto ed insegnante di lingua italiana, che nel 2017 ha pubblicato un volume dal titolo molto significativo, ovvero: Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla. Dopo aver analizzato il processo con cui gli anglicismi sono entrati nella lingua italiana, Zoppetti ha poi approntato una distinzione relativa ai settori a cui questi anglicismi appartengono (tecnologia, informatica, moda, politica,comunicazione, cucina ecc.). Poi l’autore ha anche preso in considerazione le misure adottate da altri Paesi in materia di politiche linguistiche e proprio su questo tema propone anche per l’Italia delle contromisure in difesa dell’italiano e ritiene che l’Accademia della Crusca debba svolgere un compito di guida e promozione dei termini italiani, coniandone altri “più evocativi e metaforici che letterari”. C’è davvero il rischio che fra qualche anno parleremo l”‘itanglese”? Sembra proprio di sì e a confermarlo sono anche i dati derivanti da dizionari e vocabolari: nel corso degli ultimi 30 anni il numero degli anglicismi presente nella lingua italiana è raddoppiato (nel Devoto Oli sono passati da 1600 a 3400 circa) e la frequenza con cui vengono usati è incrementata.
Diciamolo in italiano prima che esso muoia
Il titolo del saggio è anche un’esortazione: “Diciamolo in italiano”, perché in italiano possiamo e, anzi, dobbiamo dirlo, prima che la nostra lingua si impoversica ulteriormente. L’inglese è la lingua dellla globalizzazione, ma l’italiano è stata la lingua della scienza prima dell’inglese e non ha nulla da invidiare ad essa. L’italiano non è solo un insieme di parole e regole, ma è anche frutto di secoli di storia, letteratura, geografia e tradizioni, l’italiano fa parte della nostra cultura ed è esso stesso cultura. E allora speriamo che il ministero dell’Istruzione migliori e attualizzi l’insegnamento della lingua italiana e s’impegni a tutelare questo patrimonio culturale.
Carmen Morello