Aby Warburg è stato un grande studioso dell’arte e dell’evoluzione delle forme nel tempo. Il suo più grande lascito è una biblioteca unica e visionaria in cui i libri sono indicizzati in modo tematico, in modo da favorire la serendipità della scoperta, un incontro casuale tra discipline diverse.
Ma pittura, scultura, religione, letteratura, scienza e tecnica non risparmiarono a Warburg il rischio di sprofondare in un abisso psicologico fatto di caos e paura. La sua grande forza consistette nel riuscire a rimettere insieme non i libri sparsi nel mondo, ma i pezzi di sé che erano andati in frantumi. Così concluse un lungo periodo di permanenza in una casa di cura all’avanguardia con una conferenza sui serpenti, le fobie, i rituali e le evoluzioni ad essi connesse. La conferenza può essere considerata come una sorta di testamento intellettuale ma anche come un vero e proprio manifesto contro le paure. Il pubblico davanti cui si tenne, nel 1923, era un pubblico di dottori e pazienti con problemi mentali.
La biblioteca, il progetto di una vita
Aby Warburg nasce nel 1866 ad Amburgo. La sua è una famiglia di ebrei tedeschi molto benestante: sono banchieri. I suoi antenati erano emigrati in Germania dall’Italia nel XVII secolo. Lui vi avrebbe passato un felice periodo di studi, tra il 1888 e il 1889, precisamente a Firenze, per poi tornarci anche in seguito e poterla definire come sua patria d’elezione.
Primo di sette fratelli, Warburg avrebbe potuto ereditare la direzione della banca di famiglia, se non fosse subentrata la sua smisurata passione per gli studi umanistici, in particolare quelli rivolti alla storia e all’arte.
Molti dei libri che finirono nella sua incredibile biblioteca furono acquistati grazie ad un patto con il fratello minore Max. Patto che è rimasto nella leggenda: la primogenitura in cambio dell’acquisto di tutti i libri che gli sarebbero serviti per i suoi studi. Se in un primo momento poteva sembrare un patto vantaggioso, Max ebbe poi modo di puntualizzare che quell’accordo era stato “la più grossa cambiale in bianco mai firmata”. Ma sia il fratello maggiore che il minore riuscirono a far crescere le attività verso le quali erano più portati: la banca acquisì un’importanza mondiale e la biblioteca iniziò a proliferare.
Il primo nucleo di libri Warburg lo mise insieme preparando la sua tesi sulla sopravvivenza dell’antico nei dipinti di Botticelli. Da quel momento l’idea della biblioteca e la biblioteca in sé continuarono a crescere, arricchendo notevolmente la vita culturale di Amburgo. La sua espansione continuò anche dopo la morte di Warburg avvenuta nel 1929.
Le cose, però, cambiarono quando nel 1933 Goebbels diventò ministro della propaganda del partito nazionalsocialista. La matrice ebraica da cui era nata la biblioteca non sarebbe stata ignorata. La biblioteca rischiava di essere distrutta, nonostante il suo apporto culturale, e con essa l’Istituto di ricerca con cui nel tempo era stata ampliata. Fortunatamente, grazie al supporto di un comitato per l’assistenza accademica, sia la biblioteca che l’istituto trovarono una nuova casa a Londra, dove sono ancora oggi.
Dietro questo progetto, fatto di libri da incasellare e forme artistiche da indagare nella loro ricorsività mutevole nel tempo, Aby Warburg condusse la sua vita, dando forma ad uno dei pensieri più influenti del XX secolo. Ciò, nonostante i terribili crolli nervosi che dovette fronteggiare.
La “pazzia pazzerella”
Al giorno d’oggi, in cui il rapporto con le nevrosi personali o collettive è frequente, sembrano assai lontani quegli inni romantici alla pazzia, quell’elogio all’irrazionalità e al genio folle Sette-Ottocentesco. Tuttavia qualche strascico rimane, per lo più ironico, per cui si sentirà ancora lo youtuber-analista-di-successi di turno apostrofare qualcuno come “pazzo furioso”, con cui si vuole sottolineare, usando un’iperbole datata ma ringiovanita, un modo di agire e pensare fuori dagli schemi che al soggetto in questione ha portato, in genere, un discreto successo. Che poi, volendo tenere traccia di un’espressione linguistica recente e contagiosa, legata al successo economico molto più che alla vera malattia mentale, basterebbe risalire a quell’inno della foolishness, quello “stay hungry, stay foolish” reso famoso da Steve Jobs, e che poi è disceso fino alle idiosincrasie, i motteggi e gli appellativi da gruppetto di amici. Un nuovo inno, insomma, romantico-individualista, un rinascente culto della personalità unica e titanica che incede superando qualsiasi ostacolo si frapponga tra il “sé” e la sua piena realizzazione. L’inno alla pazzia divergente, di chi intravede le “stanche pecore bianche” e pur non avendo nessuna intenzione di citare Guccini sa, in cuor suo, che non si legherà a quella schiera e morrà pecora nera.
Questo è uno dei fantasmi che si aggira nella nostra cultura, usufruendo della capillarità schizoide, (questa sì), della rete; folleggiando con tutta la circospezione intermittente dei frammenti di notizia o delle alterne luminescenze con cui, tra un video e l’altro, si svolgono le nostre giornate: la nuova, bella pazzia pazzerella. Ci si può scherzare, se ne può parlare tranquillamente, si può sminuire con qualche accezione vagamente neo-superomistica, ma la cosa più perturbante è la familiarità che molti dimostrano di avere quando si parla di una scarsa salute mentale: tanto da poterne ridere (perché si sa, la battuta funziona soprattutto quando l’enciclopedia culturale è condivisa, quando si può ridere di un doloroso patrimonio comune). Un esempio su tutti è lo show di Bo Burnham, Inside. Grande successo di cui si è parlato molto in cui Bo riesce a farci ridere e riflettere sui vari minimi storici della nostra salute mentale, quelli che chiama ATL (all time low, not Atlanta…) E in effetti noi ridiamo.
I disturbi mentali di Warburg e la clinica in Svizzera
Quando la sua salute mentale tocca il minimo storico, Warburg decide di chiudersi nella clinica privata Bellevue, a Kreuzlingen, in Svizzera. Una clinica famosa e stimata nell’ambiente sociale che frequentava Warburg, composto da studiosi, finanzieri, artisti ecc. “Una parte non secondaria del loro mondo colto, aristocratico e snervato”, come scrive in un suo studio Ulrich Raulff.
Lo psichiatra che lo prende in cura è Ludwig Binswanger, un pioniere di quella che è stata definita analisi esistenziale, in cui oltre al dato biografico del paziente, si dà una grande importanza alla sua esigenza espressiva. È un tipo di cura lunga e “dolce”, in cui i pazienti vivono in modo famigliare e confidenziale con i medici, il cui scopo è quello di favorire un’autoguarigione: un metodo, insomma, congeniale a Warburg e alla sua determinazione nello sconfiggere angosce e ossessioni.
Non si sa molto del decorso della sua malattia. Fatto sta che Warburg entra nella clinica nel 1921 e nel 1923 fa a Binswanger una proposta: vorrebbe tenere una conferenza per dimostrare, in primis a sé stesso, di essere pronto per rientrare nel mondo. Il tema della conferenza sarebbe stato sulla quintessenza del terrore e delle fobie: il serpente. Binswanger acconsentì, e così Warburg iniziò a preparare carte e diapositive di un viaggio fatto ventisette anni prima verso ovest, tra i villaggi pueblo degli indiani meno civilizzati. Ebbe modo, a margine della conferenza, di esprimersi in questo modo, verso ciò che aveva ideato anche come manifesto terapeutico:
«Queste parole e queste immagini hanno lo scopo di aiutare coloro che, dopo di me, tenteranno di conquistare la chiarezza, e di superare così la tragica tensione tra il pensiero magico istintivo e la logica discorsiva. Queste sono le confessioni di uno schizoide (incurabile), depositate negli archivi degli psichiatri».
La conferenza
Tra il 1895 e il 1896 Warburg si trova sulla costa orientale dell’America, quando viene assalito dal sospetto che nel civilizzato e ridente Est non ci fosse nient’altro che vuotezza e chiacchiericcio. Su suggerimento di alcuni amici studiosi decise allora che avrebbe condotto le sue ricerche sulla necessità dell’espressione artistica andando ad Ovest. Il suo cammino si sarebbe diretto verso i villaggi indiani meno influenzati dalla cultura cristiana dei primi colonizzatori ispano-cattolici o dalla cultura nordamericana coeva. Avrebbe preso il treno che portava fino al termine dei binari nella stazione di Holbrook, per poi continuare su un buggy, una carrozza dalle ruote leggere, adatte a superare il deserto e le tempeste di sabbia, giù nell’Arizona più profonda, fino ai confini col Messico. In questo modo avrebbe raggiunto i villaggi degli indiani Hopi, gli insediamenti meno civilizzati, per osservare il loro modo di vivere, pregare, confrontarsi con la natura e l’arte. Un viaggio da antropologo ma senza la superiorità da uomo bianco civilizzatore, anzi.
Come reagisce l’uomo alle sue paure più profonde relativamente allo sviluppo tecnico che la sua società possiede? Quanto spazio viene sottratto al pensiero in nome del progresso tecnico, che sebbene riesca ad eliminare alcune paure non può fare a meno di crearne altre? Quanto delle culture antiche riaffiora in quelle più evolute?
Di tutto ciò Warburg parla alla platea di dottori e pazienti della clinica di Kreuzlingen, nel 1923. Racconta di come questi indiani che vivono in luoghi impervi e in cui l’acqua scarseggia abbiano cercato di dominare gli agenti atmosferici; di come abbiano individuato nel serpente il simbolo del fulmine e di come abbiano eletto l’arte di maneggiarlo a rito per propiziare la caduta dell’acqua dal cielo. Racconta del rituale del serpente. In agosto, quando il clima è torrido e il cibo scarseggia, viene allestito questo rituale che oltre ai danzatori mascherati coinvolge, per l’appunto, un gran numero di serpenti raccolti nelle piane desertiche vicino ai villaggi. Questi serpenti vengono poi portati nella stanza sotterranea delle case indiane, luogo di preghiera chiamato kiva. Qui, come se fossero degli iniziandi ad un culto segreto, ai serpenti viene praticato un lavacro, immergendo la loro testa in acqua e “sostanze medicamentose”. Il rituale può durare un’intera giornata fino ad un paio di settimane. L’apice del rito avviene quando i serpenti vengono posti su dei cespugli mentre i danzatori mascherati cercano di diventare tutt’uno con essi maneggiandoli e mordendoli, senza ferirli, poco sotto la testa.
Mettere in bocca il serpente serve a produrre un’identificazione mimetica con l’animale (che in questo caso simboleggia il fulmine e quindi la pioggia), ciò per poter controllare il simbolo stesso e un aspetto della natura fondamentale per la sopravvivenza. «La ricerca collettiva del cibo è quindi schizoide: magia e tecnica vengono qui a interagire». Ma per quanto questo possa sembrare irrazionale, Warburg vede gli indiani Hopi come antichi illuministi nella loro “causalità danzante”.
«Essi non sono più dei veri raccoglitori allo stato primordiale… Ma non sono neppure degli europei rassicurati dalla propria tecnologia… Si trovano a metà strada tra magia e logos, e lo strumento con cui si orientano è il simbolo. Tra il raccoglitore primordiale e l’uomo che pensa si trova l’uomo che istituisce connessioni simboliche».
I serpenti, un simbolo ambiguo
Ed è proprio il serpente l’animale in cui si può osservare la polarità di un simbolo: ovvero l’oscillazione tra due estremi, quello della ferita mortale e quello della rinascita. Proprio il serpente sembra incarnare in sé questa gamma di significati. E Warburg intuisce anche il legame di questi sentimenti forti con il ritorno di alcune forme nella storia dell’arte, una sorta di inconscio ottico ricorrente, per riferirsi al quale usa il termine di nachleben, ovvero sopravvivenza, vitalità, ritorno nella memoria e nelle forme.
La carica fobica del serpente è stata sottolineata anche da alcuni studi più recenti. Per esempio, Mundkur sostiene che
«Il fascino e il terrore del serpente non nascono solo dalla paura istintiva del veleno, ma da stimoli psichici meno comprensibili anche se primordiali […] Suscitano reazioni di tipo istintivo, irrazionali e fobiche, non solo nell’uomo ma anche nei primati».
E anche Warburg, in un suo appunto, indugia su quanto questo animale susciti una profonda paura, carica però di ambivalenze: il ciclo biologico del serpente va dal profondo letargo alla vitalità più accesa; muta la pelle rimanendo il medesimo; non può camminare ma ha comunque una grande energia propulsiva, unita alla letalità del veleno; è quasi invisibile all’occhio umano perché sa mimetizzarsi ma è pronto a balzare; ha una forma fallica. «Tutte queste proprietà», scrive Warburg «ne fanno un simbolo rilevante e indistruttibile dell’ “ambivalenza” nella natura, della morte e della vita, del visibile e dell’invisibile, subdolo prima e irrimediabilmente fatale appena lo vedi».
Nachleben: ritorno nella memoria e nel tempo
La leggenda indiana
Ma allora come funziona questa nachleben, questo ritorno ambivalente? Warburg inizia a fare degli esempi uniti alle sue osservazioni. Parte da un’antica leggenda cosmologica degli indiani hopi: l’eroe Ti-yo deve scendere nel mondo sotterraneo alla ricerca di una sorgente d’acqua, (sempre il solito problema). Nella sua esplorazione del mondo ctonio viene accompagnato da un ragno-guida, sorta di Virgilio, seduto sul suo orecchio destro. Esplorando le varie kiva dei sovrani degli inferi riesce finalmente a trovare quella in cui sono custoditi i serpenti e in cui otterrà anche il bastone magico, il baho, per provocare la pioggia. Oltre al bastone, sulla terra riporterà anche due ragazze serpente dalle quali avrà figli serpentiformi, che si riveleranno pericolosi e causeranno lo spostamento di molte tribù. Già in questa leggenda il serpente viene tramandato in tutta la sua ambiguità legata a vita, morte e commistione con la figura umana.
Il serpente biblico e la vipera di Malta
Ma Warburg fa anche degli esempi in cui la polarità del simbolo-serpente è più netta e meno confusa. Nella Bibbia, per esempio, il serpente tentatore è l’incarnazione del male assoluto, colui che ha spinto il genere umano a peccare attingendo dall’albero della conoscenza del bene e del male. È un simbolo decisamente negativo. Accade, però, che nel corso del Medioevo la figura del serpente subisca una parziale rivalutazione in ambito cristiano, tramite la sua umiliazione e la rivincita del corpo umano che si dimostra immune al suo veleno. Questa “rivincita” prende il via da San Paolo e la vicenda della vipera di Malta. Scampato ad un naufragio e soccorso dagli isolani, Paolo viene portato intorno ad un fuoco. Volendo alimentare la fiamma raccoglie qualche ramo secco per buttarcelo, ma una vipera velenosa covava, mimetica, nelle ramaglie. Viene morso. Con sdegno getta la vipera nel fuoco ma tutti lo danno per spacciato: scampato dal mare in tempesta e morso da un serpente mortale, sicuramente qualche dio doveva averlo in odio. Ma non gli succede niente e agli occhi dei pagani che vanno mano a mano sgranandosi dallo stupore Paolo inizia a sembrare un messaggero invulnerabile, egli stesso un dio. Questa storia ha un’eco incredibile nel tempo: fino al 1500 ciarlatani girovaghi si aggireranno per fiere e feste paesane con il corpo coperto di serpenti, definendosi immuni, spacciandosi per discendenti di San Paolo e vendendo una miracolosa terra di Malta. Quello che rimane nell’immaginario è un corpo vittorioso nonostante fosse avvolto dai serpenti. C’è sempre una densa e inquietante sovrapposizione fisica, una sorta di metamorfosi reciproca tra corpo umano e rettile, che porta anche il simbolo a cambiare.
Il Laocoonte
Ma nella storia dell’arte ci sono altre opere con un’altissima carica di pathos in cui il corpo umano non riesce a liberarsi dalle spire dei serpenti. L’esempio più famoso che cita Warburg è quello del Laocoonte. Nel gruppo scultoreo è rappresentato il sacerdote troiano Laocoonte con i suoi figli che viene stritolato da enormi serpenti marini mandati da Atena. Laocoonte stava cercando di avvertire i troiani, con l’esiziale cavallo alle porte, pronunciandosi in un famoso consiglio che lo avrebbe condannato, ovvero che dei greci non ci si doveva mai fidare, neanche quando recavano doni. Ma la dea Atena parteggiava per i greci e senza farsi troppi scrupoli mandò i serpenti a stritolare Laocoonte e anche i suoi figli. Oltre alla grande tensione di muscoli e spire, Warburg sottolinea come qui il serpente si manifesti in tutta la sua carica di simbolo tragico: un potere ctonio scolpito a sugellare la sofferenza umana; un sacerdote saggio che voleva aiutare il suo popolo condannato dagli dèi parziali e ingiusti. «Così la morte del padre e dei figli diviene il simbolo della Passione antica: morte per mano di demoni vendicativi, senza giustizia e senza speranza di redenzione».
Asclepio e il serpente di bronzo
Ma dove Laocoonte è condannato a perire c’è un’altra divinità antica che riesce addirittura a salvare con i serpenti: Asclepio, che dal veleno riesce a ricavare farmaci benefici per l’umanità. Per Warburg, nel dio-serpente Asclepio si può osservare tutta la raggiante bellezza classica. Il simbolo tipico di Asclepio è un serpente attorcigliato intorno al suo bastone: un simbolo che ancora oggi possiamo osservare nelle insegne delle farmacie. Ma questo simbolo salvifico, indice di un’umanità che sa maneggiare il veleno per ricavarne una cura, nel tempo si è anche sovrapposto, incredibilmente, all’iconografia della Crocifissione. Questo perché, nel quarto libro del Pentateuco, in un residuo di idolatria pagana, Mosè comanda agli israeliti nel deserto di innalzare un serpente di bronzo per difendersi dai loro morsi. Fatto che è sopravvissuto in alcune illustrazioni di Bibbie antiche in cui, per l’appunto, un serpente pendente da un bastone viene messo in correlazione con la Crocifissione e con la necessità di espiare il male.
«Innalzare il serpente di bronzo e prostrarsi in massa davanti al bastone di Asclepio sono atti interpretati e presentati come uno stadio preliminare – che va comunque superato – della ricerca di salvezza da parte dell’umanità».
In tutto questo rincorrersi di simboli Warburg finisce quindi per accennare, in modo abbastanza velato, ad una sorta di “cortocircuito dell’inginocchiamento”. È come se dicesse che l’uomo ha la necessità costante di ricorrere al pensiero simbolico: il progresso mentale dell’uomo non può essere misurato o comparato con il progresso tecnico: il primo, infatti, sembra essere spiraliforme, serpentino, bisognoso di rintanarsi nell’irrazionale per poi riemergerne; il secondo, anche se frutto del primo, ha un andamento esponenziale costretto ad assecondare gli asintoti delle risorse deperibili.
I serpenti di rame di Edison
Per concludere, Warburg cerca di istituire un ultimo collegamento con la sua epoca. Apparentemente, sopre le teste degli abitanti delle città più evolute, si snoderebbero degli altri “serpenti”, questa volta non di bronzo: i serpenti di rame di Edison, i cavi dell’elettricità. Cavi il cui contatto diretto deve essere evitato se non si vuole rimanere folgorati. Nella condizione primordiale il serpente diventa il simbolo di forze demoniache della natura che l’uomo deve dominare dentro e fuori di sé, con un brutale contatto fisico o con una sublimazione. Le società più evolute fanno un qualcosa di molto simile, per quanto cerchino di raffinare il processo.
«Il fulmine imprigionato nel filo – l’elettricità catturata – ha prodotto una civiltà che fa piazza pulita del paganesimo. Ma che cosa mette al suo posto? Le forze della natura non sono più concepite come entità biomorfe o antropomorfe, ma come onde infinite che obbediscono docili ai comandi dell’uomo. In questo modo la civiltà delle macchine distrugge ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero».
Necessità biologica, paure e complotti
La paura crea uno spazio prolifico per il pensiero creativo; la tecnica riduce la paura a cui l’uomo aveva dato un nome e una storia e ne crea altre anonime, e per questo più insidiose. La ricerca dei comportamenti ancestrali con cui l’uomo ha superato le sue paure può illuminare la strada, esorcizzare la paura con i simboli. Mentre, d’altro canto, simbolizzare la tecnologia in modo inconsapevole non consente di prendere in mano le proprie paure. Sembrerebbe, di fatti, che per Warburg fosse meglio gestire in modo irrazionale ma consapevole e socialmente esteso le paure, piuttosto che scansarle grazie ad una razionalità tecnica che impoverisce il pensiero e la vita sociale dell’uomo, sotto una luminescenza scialba dal nome di progresso. Dominare una paura in modo personale, dare ad essa una coerenza privata e magari irrazionale, può essere di maggiore aiuto rispetto ad una tecnologia che ha fatto passi da gigante rimanendo incompresa ma che si erge a baluardo difensivo. Questo è molto interessante non solo come ragionamento rivolto alle arti: lascia intuire, infatti, anche quale sia il serbatoio di timori e ignoranza che alimenta alcuni atteggiamenti complottistici e irrazionali dei nostri giorni. Questa osservazione si potrebbe legare all’idea di Walter Benjamin, secondo cui l’arte, ai nostri giorni, si è politicizzata, o meglio, la politica ha iniziato ad assumere strategie estetiche che un tempo erano tipiche del processo artistico. Ma ciò andrebbe analizzato in modo più esteso in un’altra occasione.