In questi giorni il Bundestag ha dato il via libera alla procedura di emendamento in merito ad un paragrafo del codice penale tedesco, che vietava ai medici e ai professionisti sanitari di divulgare informazioni sull’aborto al pubblico, con gravi condanne in caso di trasgressione.
Si tratta di una norma promulgata dal partito nazista nel 1933, con il fine limitare il ricorso all’aborto: è una legge tuttora valida e applicata, che vede ancora dei difensori tra le aree conservatrici della politica tedesca; era una legge subdola, che sulla carta garantiva il diritto di ricorrere a tale pratica, ma nei fatti lo rendeva quasi del tutto impraticabile, in un’epoca e in un luogo in cui l’informazione era sotto il totale controllo di un regime repressivo e l’accessibilità al sapere di oggi era impensabile e inesistente con i mezzi a disposizione nel 1933. Il divieto di divulgare informazioni utili sull’aborto viene punito con due anni di carcere.
L’aborto in Germania è regolamentato rigidamente e ricade sotto il paragrafo 218 del codice penale; in sostanza è illegale, ma è tollerato e praticabile solo in situazioni eccezionali, come casi di violenza sessuale, malformazioni del feto e pericolo di vita per la madre: il limite per abortire è entro i primi tre mesi di gravidanza e deve essere autorizzata da un medico.
Ma il caso di una ginecologa nel 2018 ha fatto riaccendere la discussione: la dottoressa Kristina Hänel fu infatti condannata a pagare un’ammenda di 6000 euro per aver inserito sul suo sito professionale informazioni sull’aborto, uno dei tanti servizi da lei offerti: il processo è scattato dopo la denuncia di un’associazione pro-vita, applicando il paragrafo 219a, che vieta ai medici di “pubblicizzare” l’aborto.
Questa battaglia legale ha subito gli alti e i bassi della politica interna tedesca dell’ultimo anno, ma sembra che finalmente si sia raggiunto il risultato sperato dall’ala progressista, cioè la riforma del paragrafo 219a, dopo un lunghissimo dialogo tra le parti per un raggiungere un compromesso.
Molte sono le iniziative antiabortiste simili alla legge del 1933 che non puntano direttamente a rendere illegale la pratica, ma fanno in modo che nella realtà questo diventi impossibile o molto difficile, senza intaccare la libertà di scelta di facciata, come le recenti iniziative di Verona e Alessandria: stanziando fondi alle associazioni pro-vita tagliano fuori tutti gli altri protagonisti del dibattito, come le associazioni femministe monopolizzando la discussione e le possibili soluzioni. Essendo le associazioni antiabortiste quasi tutte di matrice religiosa, è arduo credere che i fondi pubblici dati a loro verranno destinati a campagne di sensibilizzazione sull’uso degli anticoncezionali; semmai finiranno in campagne pubblicitarie intrise di terrorismo psicologico e colpevolizzazione delle donne, caratterizzate inoltre da immagini cruente e di cattivo gusto.
Barbara Milano.