– Di Francesca de Carolis –
“Aboliamo le prigioni?” Un titolo che sembra quasi una provocazione. Un gioco di parole per illusi e sognatori. Parole impronunciabili, diciamo la verità, anche per molti che si ritengono “progressisti”.
Ma provocazione non lo è affatto. E questo saggio di Angela Davis, che quest’anno è stato riproposto da Minimum fax (che già lo aveva pubblicato in Italia nel 2009, dopo la sua uscita in America), mai come oggi sembra opportuno. Opportuno e attualissimo, anche per noi europei, e in particolare per noi italiani, freschi dello svelamento di cosa il carcere sia, dopo le notizie delle inusitate violenze che persone detenute, affidate alla custodia allo stato, hanno subito…
Angela Davis chi giovanissimo non è la ricorda mitica militante del movimento americano per i diritti civili dagli anni Sessanta e, fino agli anni ’90, del partito comunista degli Stati Uniti. E oggi che, attenta studiosa di fama internazionale, ha concentrato il suo impegno nella difficilissima battaglia per l’abolizione del carcere, ha la stessa forza e il rigore di allora, il suo pensiero lo stesso fascino che si affacciava dalle foto e dai poster di quel tempo, sotto quel casco immenso di capelli ricci e neri…
E coglie un nodo fondamentale delle nostre paure e contraddizioni, che impediscono il cammino verso un mondo di vera uguaglianza, di rispetto di diritti per tutti, ma proprio per tutti. Andando intanto alla radice della nostra incapacità di immaginare un mondo senza prigioni.
Già. Perché mai diamo per scontato il carcere?
“Come se si trattasse di un fatto scontato dell’esistenza, come nascere e morire”.
Ci ricorda, Angela Davis, che il carcere, come ancora lo intendiamo oggi, è un’istituzione moderna, che “il processo attraverso cui la carcerazione si è trasformata nel principale tipo di punizione inflitta dallo stato è strettamente legato all’ascesa del capitalismo e alla comparsa di un nuovo insieme di condizioni ideologiche”. Mentre la condanna al carcere viene pensata in termini di tempo, esattamente “nel periodo in cui il valore del lavoro viene calcolato in termini di tempo”.
Uno sguardo largo, quello di Angela Davis, sorretto dalla ferma convinzione che le diseguaglianze delle nostre società passano attraverso discriminazioni di razza, di sesso e di classe, e solo la via del socialismo ne permetterebbe il superamento.
E studiando il sistema americano, ci parla di “sistema carcerario industriale” che, dopo l’abolizione della schiavitù, fonda le sue basi economiche su una sorta di “schiavismo morbido”, cercando di rivelare forme mascherate di pregiudizio razzista che raramente vengono riconosciute tali. In un sistema dove tutto si tiene, se lo sfruttamento della manodopera carceraria da parte di corporation private (perché questo accade) è “uno dei tanti aspetti dei rapporti che legano grandi imprese, governo, istituti di pena e media”. Un sistema che, confinando nelle sue mura marginalità cui nessuno intende porre rimedio, continuamente alimenta se stesso. Un sistema che, se pure abolito l’orrenda pratica dei detenuti in affitto in vigore fino all’inizio del XX secolo, ha tutto l’interesse a tenersi ben stretti i suoi due milioni e mezzo di persone detenute. Che sono per lo più neri, ispanici, amerindi, asiatici-americani…
Libro complessissimo e dettagliatissimo, tutto da studiare.
Ma due aspetti voglio segnalare.
Lo sguardo di donna che sa leggere come il sesso dei detenuti condizioni un sistema carcerario dove, paradossalmente, le richieste di parità con le prigioni maschili, invece di migliorare le condizioni di vita offrendo maggiori opportunità di istruzione, migliore assistenza medica… hanno portato a condizioni più repressive. Che dire della decisione negli anni Novanta in Alabama di istituire gruppi di forzati composti da donne “per creare condizioni di uguaglianza con gli uomini”…
E fanno rabbrividire le pagine in cui si racconta di come, in una perversa combinazione di razzismo e misoginia, si pratica la perquisizione integrale con l’esame di vagina e ano. Fa fatica pensarlo, ma questo è. Una sorta di istituzionalizzazione dell’abuso sessuale.
E ancora una cosa ci dice Angela Devis. Che l’urgenza di questo suo impegno nasce dallo sguardo di chi l’esperienza del carcere, nella sua violenza e nel suo orrore, l’ha vissuta in prima persona. Lei che nel 1970 fu arrestata con l’accusa di complicità in un omicidio, e dopo due anni assolta. E nessuno sguardo altro può arrivare a tanta profondità e determinazione.
Aboliamo le prigioni, dunque. Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale. Un lavoro molto ricco, col corredo di interviste e interventi di Guido Caldiron , Paolo Persichetti e Valeria Verdolini. Interventi in appendice, che in realtà sono parte integrante di un discorso che parte dagli Stati Uniti e attraversa l’oceano per dirci che riguarda anche tutti noi, e i paralleli balzano agli occhi, dalla questione dell’affollamento, al processo di criminalizzazione delle marginalità sociali, all’assurdo binomio, che i dati smentiscono, carcere/sicurezza, alle forme del nostro razzismo che è riuscito a trasformare il concetto di cittadinanza in “condizione esclusiva della personalità sociale”, dove gruppi stigmatizzati in partenza non hanno speranza…
Un libro che pone tante domande. Su tutte una: ma è davvero così difficile pensare a un mondo senza prigioni? Eppure, si ricorda anche qui, chi avrebbe mai pensato, cinquant’anni fa, che si potesse vivere anche senza manicomi? Basaglia insegna… che l’impossibile può diventare possibile.
Da leggere questo libro, giustamente si spiega, come manuale di resistenza. Di resistenza ai dubbi, alle paure, alle oscillazioni, che investono anche chi il pensiero dell’abolizione delle prigioni pure riesce a sfiorarlo. Eppure… “Molti sono già arrivati alla conclusione che la pena di morte è una forma antiquata di punizione che viola i principi basilari dei diritti umani. Penso che sia venuto il momento di incoraggiare un dibattito analogo sul carcere”. Parola di Angela Davis.
E coraggio, allora. Provate a immaginare l’impossibile. Provate a immaginare il nostro mondo virare in panorami urbani liberi da quelle asfittiche scatole di ferro e cemento, in panorami dell’anima ripuliti da tanta insensata, dolorosa, violenta costrizione. E’ davvero così difficile?