Abiy Ahmed: «La guerra è finita». Ora sul paese incombono la crisi umanitaria e lo spettro della guerriglia

Abiy Ahmed

Robert Stansfield/Department for International Development'

Secondo il primo ministro etiope Abiy Ahmed lo scontro militare tra il governo e le forze ribelli del Tigrè si è concluso. “Sono lieto di comunicare che abbiamo completato e cessato le operazioni militari nella regione del Tigrè”, ha annunciato in un twitter lo scorso sabato. La dichiarazione segue l’annuncio del capo dell’esercito federale, secondo cui le forze di Addis Abeba avevano assunto il pieno controllo della capitale della regione, Mekelle.




La presa di Mekelle significherebbe la fine del conflitto iniziato quando il primo ministro ha dichiarato guerra al governo regionale del Tigrè, “per ripristinare lo stato di diritto e l’ordine costituzionale”.

Le tappe della guerra voluta da Abiy Ahmed

Dal 4 novembre, l’avanzata dell’esercito federale nella regione è stata inarrestabile. Le forze di difesa nazionali hanno preso numerose città: Dansha, Humera, Shiraro, Adigrat. Secondo le dichiarazioni di Abiy Ahmed, il processo di “liberazione” dall’esercito fedele al Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF) è stato portato avanti prendendo tutte “le misure necessarie per non danneggiare i civili”. In realtà giungono notizie di atrocità e massacri di cui sia il governo sia i ribelli si sarebbero macchiati.




Il 22 novembre, con la città di Mekelle già sotto assedio, il primo ministro ha imposto un ultimatum ai ribelli: “Vi esortiamo ad arrendervi pacificamente entro le prossime 72 ore, e a riconoscere che siete giunti a un punto morto”. Intanto un portavoce dell’esercito, Dejene Tsegaye, si rivolgeva agli abitanti della capitale regionale: “Mettetevi in salvo. Dissociatevi da questa giunta, dopodiché non ci sarà pietà per nessuno”.

I soldati di Debretsion Gebremichael non hanno rispettato il limite imposto dal governo. Poche ore dopo la scadenza dell’ultimatum, giovedì 26, il primo ministro ha lanciato “la fase finale” dell’offensiva, dando il suo consenso all’ingresso di carrarmati e artiglieria pesante nelle città di Mekelle, dove vive oltre un milione di persone. Abiy Ahmed, in un comunicato apparso su Twitter, ha invitato la cittadinanza a “non uscire di casa e a stare lontani da obiettivi militari”. Inoltre ha assicurato che le operazioni avrebbero in ogni momento garantito la sicurezza e l’incolumità della popolazione civile.

Nelle prime ore di sabato, il leader dei ribelli denunciava il “pesante bombardamento” cui era sottoposta la città, poco prima delle dichiarazioni di vittoria del primo ministro. La risposta del TPLF non si è fatta attendere, e non lascia presagire il futuro di pace auspicato da Abiy Ahmed. Debretsion è stato chiaro: per lui e per i suoi uomini la presa di Mekelle non è la fine del conflitto. Lottare contro il governo significa difendere il diritto dei tigrini all’autodeterminazione.

Ora il rischio è la guerriglia

Le forze ribelli continuano a controllare gran parte del Tigrè rurale e hanno una lunga esperienza nei combattimenti sull’aspro terreno della regione. Come indicano gli esperti, la rapidità con cui è stata presa la capitale della regione, e la scarsa resistenza da parte dei ribelli, suggeriscono che i combattenti tigrini si siano spostati con il loro arsenale sulle montagne, in posizioni strategiche. Dunque quella che Abiy Ahmed celebra come una vittoria potrebbe in realtà essere il preludio di una guerriglia pronta a infiammare il Corno d’Africa.

Intanto altri razzi hanno colpito Amsara, la capitale dell’Eritrea. Sebbene questa volta nessuno abbia rivendicato la responsabilità dei bombardamenti, il ricercatore dell’Institute of Commonwealth Studies, Martin Plaut, in un’intervista a Al Jazeera, ha detto che “adesso questa è chiaramente una guerra regionale”.

Il costo umano della guerra di un premio Nobel per la pace

Durante tutto il conflitto è stato impossibile verificare le dichiarazioni di entrambe le parti. I contatti telefonici e via internet sono stati tagliati. È quindi difficile stabilire, in termini umani, l’entità dei danni provocati dalle operazioni militari. Oltre 1 milione di persone hanno perso la casa, più di 43.000 sono fuggite nel vicino Sudan, dove i campi profughi sono al collasso.

Più volte l’Unione Africana (UA) ha tentato di mediare, pregando Abiy Ahmed di cessare il fuoco e di cercare un dialogo con il TPLF. Inutilmente l’ONU ha chiesto l’apertura di un corridoio umanitario. Il primo ministro, premio Nobel per la pace, ha sempre rifiutato ogni “interferenza” internazionale.

Si calcola che, dal 4 novembre, migliaia di persone, anche tra la popolazione civile, siano morte a causa del conflitto, e decine di migliaia siano rimaste ferite durante i bombardamenti.

All’indomani della presa di Mekelle, l’International Committee of Red Cross (ICRC), fornisce qualche dettaglio in più circa la situazione sul campo. Negli ospedali, l’80% dei pazienti riportano ferite o traumi riconducibili al conflitto. Mancano disinfettante, antibiotici, anticoagulanti, antidolorifici, mancano anche i guanti. Gli ospedali hanno finito le borse utilizzate per disporre dei defunti. Secondo Maria Soledad, responsabile delle operazioni dell’ICRC in Etiopia, “è da tre settimane che non arrivano rifornimenti”.

Anche nei campi profughi lungo il confine in Sudan, le ferite di chi scappa raccontano scenari di “odio estremo, follia, follia assoluta”. I sopravvissuti arrivano dopo marce estenuanti di giorni, senza acqua né cibo. Gli occhi pieni di dolore non hanno più lacrime per piangere un figlio o un padre, chi è rimasto indietro. Mani tremanti mostrano alle telecamere dei giornali le foto delle persone che non sono state risparmiate dalla guerra, delle vittime di un conflitto che sta esacerbando le tensioni etniche nel paese.

Camilla Aldini

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