A più voci. Da Neapel e Napoli Porosa con Elenio Cicchini e Marilù Prati


L’originalità stilistica è incomparabilmente maggiore nei particolari che non nell’insieme.

Walter Benjamin
Walter Benjamin

Permetta che mi presenti, sono il dottor Walter Benjamin”. Inizia così, a Capri nel 1924, la storia tra il filosofo e Asja Lacis. Lui, tra i più grandi pensatori del Novecento. Lei, rivoluzionaria, regista e drammaturga che ha lavorato con Brecht.
Sono gli anni in cui scrittori, espressionisti, futuristi e bolscevichi cercano un Sud metafisico. “Se lei mi avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni”, scrive Benjamin in “Strada a senso unico”, un intreccio tra aforismi, saggi e sogni, che fin dal titolo allude alla donna che, come un ingegnere, gli aveva aperto una via senza ritorno.

“Occhiali che mandavano bagliori come due piccoli fari”, ricorda Asja Lacis nella sua autobiografia, Professione: Rivoluzionaria del 1971. “Capelli scuri, naso sottile, mani maldestre (la borsa gli cadde di mano). Insomma, un solido intellettuale, un benestante. Mi accompagnò a casa, si congedò e chiese il permesso di venirmi a trovare. Venne il giorno seguente”.

In quell’estate, Benjamin e Lacis scrivono un saggio breve sulla città partenopea: Neapel. L’intuizione centrale è della regista: la porosità. Perché Napoli, costruita sul tufo, assorbe, spezza, apre, mescola soggetto e oggetto che si compenetrano in un’autonomia propria: “Nessuna situazione è pensata una volta per sempre. Costruzione e azione si permeano in un susseguirsi di cortili, portici e scaloni. Tutto è fatto per custodire la scena in cui costellazioni sempre nuove, sino ad allora imprevedibili, possano accadere”. Persino le case sono serbatoi dai quali, senza sosta, ci si rovescia all’esterno. “Così come l’abitazione si riversa in strada con seggiole, fornacelle e altarini, allo stesso modo, ma molto più chiassosamente, la strada irrompe nel basso”.
Osservazioni che entrano anche nell’estetica di Mejerchol’d e di Lacis elaborata dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Una concezione secondo la quale lo spettatore diventa artefice della messa in scena, insieme all’autore, all’attore e al regista. “Non occorrono sete, velluti e panno”, teorizzava Mejerchol’d, “è indispensabile uscire da quelle scatolette che sono i palcoscenici”. Una cosa semplice che è difficile a fare, come insegnava La madre di Brecht.
Benjamin e Lacis descrivono Napoli come l’insieme di palcoscenico e platea. Un teatro popolare diviso in una miriade simultanea di palchi permanenti: balconi, pianerottoli, androni, tetti, scaloni, finestre: “Un’altissima scuola di regia si svolge sulle scalinate che si precipitano verso l’esterno, compiono una rotazione ad angolo e scompaiono per gettarsi all’infuori un’ultima volta”. Sono prospettive e architetture che suggeriscono soluzioni inedite. “Quando tornerò a Riga farò un numero infinito di ribalte… pannelli… siparietti…” annota Asja Lacis in Professione: Rivoluzionaria, gettando le basi per una scenografia anarchica, senza centro, che porterà perfino nel suo Teatro Proletario dei bambini, una sperimentazione pedagogica per gli orfani della Grande guerra e della guerra civile, ripresa da Brecht nel suo Lehrstück.

Neapel è anche uno strumento per riflettere ancora sull’ottica dialettica di Walter Benjamin, che in quei sei mesi a Capri elaborò la premessa di una delle sue opere fondamentali: Il dramma barocco tedesco.
La versione originale di Neapel, un dattiloscritto conservato alla National Library of Israel, esce per la prima volta nel 2020 a cura di Elenio Cicchini, ricercatore in filosofia all’Istituto Max Planck di Roma, nell’edizione Dante e Descartes. Ma il titolo è cambiato: non più  Neapel, ma  Napoli porosa.

Una scelta coraggiosa “per sottolineare la porosità come categoria centrale e per sottrarla ai luoghi comuni”. Come spiega lo studioso, il testo è “una miniatura dell’impianto teorico del filosofo: contiene il montaggio, il ritmo, l’attenzione al frammento, all’allegoria, a tutto ciò che non è fisso”. Inoltre, racchiude “i presupposti per una dialettica che va ripensata. Una dialettica che non è più tra due poli che si negano, come nella tradizione hegeliana, ma si sviluppa in due momenti che si compenetrano in uno stato di quiete: la durchdringt”.
Momenti che Benjamin riprende anche nel saggio su Eduard Fuchs, in cui si legge:

“Non più la bella apparenza, non più l’armonia, non più l’unità del molteplice. Ma la ricezione che consente di rettificare il processo di reificazione che l’arte subisce”.

È la stessa dinamica che attraversa la porosità partenopea, fatta di muri puntellati e Madonne sbiadite, giochi e gelati sciolti per strada, palloni e odori dei vicoli, pietre che prendono forma nella percezione del suono e del rumore. “Tufo significa grotta, cava, sepolcro e contiene organismi antichi”, precisa Cicchini. “È una materia che imprigiona i fossili del tempo che il materialista storico deve liberare”.

Neapel uscì sulla «Frankfurter Zeitung» un anno dopo la stesura. Nel 1931, fu rielaborato per la radio tedesca. Fu studiato da Ernst Bloch. Diventò il testo d’apertura di Stadbilder: il volume sulle immagini, le crepe, gli istanti delle città visitate da Benjamin. Fu poi pubblicato nel 1955 a cura di Adorno, ma in quell’edizione il nome di Asja Lacis fu cancellato.

Asja Lacis

Forse per creare un po’ di silenzio intorno a Benjamin che, in fuga dai nazisti, si era tolto la vita”, spiega Cicchini. “Forse il nome di Asja Lacis non compare per lasciare da parte una storia privata, anch’essa porosa e carica di contraddizioni. O forse, solo perché non sembrava essere così importante… Eppure, la sua personalità ha avuto tanta rilevanza nella vita e nel pensiero di Benjamin”.

Nel 2016 la storia di questa donna è stata riscritta e interpretata da Marilù Prati in “Le notti capresi del filosofo e la rivoluzionaria”.
È stato Renato Nicolini, il mio compagno, ad avvicinarmi al concetto di porosità” racconta l’autrice, nata a Napoli, attrice con Eduardo e protagonista di tanto teatro di ricerca. “Mi sono documentata a lungo sulla drammaturgia di Asja Lacis, sulla sua biografia, sui suoi laboratori, sulla sua militanza. Avevo lavorato a “Il bagno di Majakovsky”, con la regia di Carlo Cecchi, e quando ho scoperto che la Lacis aveva incontrato il poeta russo in una strada di Mosca, mi è sembrato di conoscerlo con lei, di averlo visto anch’io nella sua blusa da bellimbusto”. Ascoltando queste parole, tornano alla mente i versi che  il poeta declamava  girellando “col passo di Don Giovanni”, con i  calzoni neri del velluto della sua voce e “una gialla blusa di tre tese di tramonto”.

Nell’adattamento di Prati, si delinea anche il volto umano di Benjamin. “Mi sono stupita del suo atteggiamento nei confronti di Asja”, continua l’autrice. “La osservava svolazzare per la Piazzetta con i suoi abiti bianchi. Le scriveva poesie. Le parlava di Kafka e di Gide in quella sua specie di caverna, tra l’uva e le rose selvatiche”.  Era la stagione che Benjamin descrisse come la “metamorfosi nel simile”, con “fuochi d’artificio dal doppio riflesso in alto nel cielo e in basso nel mare”.

La lettura teatrale di Prati è andata in scena una sola volta. Forse era il segnale che si voleva far tacere la porosità. Lo aveva intuito Francesco Rosi nel suo “Diario napoletano” del 1992, con la sceneggiatura di Raffaele La Capria, in cui mostrava una metropoli sempre più dura, senza contaminazione tra alto e basso. Altre voci autorevoli si sono battute per difendere la dialettica porosa. Renato Nicolini non si è mai rassegnato alla perdita della permeabilità; Mario Martone ha riportato l’allegoria del tufo al cinema e al teatro; Massimo Cacciari ha avvicinato la nozione di poroso a quella di soglia, eleggendo la città partenopea a cerniera tra Occidente e Oriente. Ora, ad aprire nuove riflessioni è Elenio Cicchini, secondo il quale “la porosità trascende Napoli: è un concetto filosofico centrale del pensiero di Benjamin e di quello contemporaneo”. Lo studioso riprende il concetto del filosofo tedesco e di Asja Lacis, lo allarga e lo cala nelle sfide del mondo contemporaneo:

[La porosità] ha a che fare con la vita, non con uno stato di diritto. Non può essere prodotta: è qualcosa che si dà. Oggi è racchiusa in una forma sigillata. La visione è stata sostituita da un’osservazione dei fenomeni controllata, iper dettagliata. Il contatto è stato sostituito dal touch, un qualcosa che scherma e fa sì che soggetto e oggetto non si incontrino più attraverso il tatto. Pensiamo al distanziamento sociale che stiamo vivendo: è l’esito di un processo di atomizzazione in atto da anni. La porosità è stata catturata, ma emerge proprio nella sua impossibilitò di essere. Per questo, forse, solo oggi è possibile pensarla, ma occorre farlo da capo. Chissà se sarà ancora possibile una vita porosa…

E chissà se saranno ancora possibili “fuochi d’artificio dal doppio riflesso in alto nel cielo e in basso nel mare”.

 

Daniela Morandini
Elisa Guida

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