Come è suo solito fare, al rientro dalla Svizzera, Marco Cappato si è auto-denunciato ai sensi degli articoli 579 e 580 del Codice Penale.
Per una regolamentazione del diritto di morire
Tesoriere nell’Associazione “Luca Coscioni” e volto forse più conosciuto nella discussione pro-eutanasia, il 26 novembre Marco Cappato usciva nuovamente dal tribunale di Milano. È una prassi ormai consolidata la sua: accogliere le richieste che arrivano all’Associazione di persone che intendono usufruire del “servizio” di interruzione della propria vita.
Il termine “servizio” sembra inadeguato per definire questa pratica, ma risponde alla volontà di Cappato e colleghi. Il loro è un mettersi a disposizione, al servizio di chi, pur volendo, non può accedere in autonomia al suicidio assistito. È farsi veicolo di quello che dovrebbe già essere garantito per legge, mettersi personalmente “in pericolo” per il bene di qualcun altro.
Cappato svolge una funzione di accompagno, tanto fisica quanto psicologica, oltralpe: in Svizzera, dove questo servizio è, appunto, legalizzato dallo Stato. Sono infatti solamente due le condizioni per cui è possibile accedervi. Il/la paziente deve essere nel pieno possesso delle proprie capacità mentali, quindi decisionali. In secondo luogo è il/la malato a dover agire praticamente all’assunzione del Pentobarbital, con quella che viene definita “proprietà d’azione” della propria morte.
L’accompagnamento di malati in Svizzera, dal punto di vista della legge italiana, non è perseguibile penalmente in tutti i casi. Ci sono infatti tre requisiti che la persona malata deve soddisfare affinché chi si rende disponibile nell’aiutarlo non passi guai legali.
In primo luogo il/la paziente deve essere tenuto in vita attraverso macchinari, apparecchiature o trattamenti medici, senza i quali, appunto, non potrebbe sopravvivere. In secondo luogo deve essergli diagnosticata una malattia terminale o comunque irreversibile, che implica quindi un trattamento medico ad oltranza. All’interno di questo vincolo, si contempla anche una sofferenza insopportabile, data, appunto, dall’irreversibilità della condizione. In ultima istanza la persona deve essere nel pieno delle proprie capacità di intendere e di volere.
Chi era il signor Romano
A chiedere l’aiuto dell’Associazione Luca Coscioni e di Cappato è stato il signor Romano, 82 anni, affetto da una forma di Parkinson particolarmente aggressiva. Si tratta di una malattia debilitante, che nella maggior parte dei casi porta all’impossibilità di disporre pienamente del proprio corpo. In alcuni casi la malattia può colpire zone più “ristrette” del corpo, un esempio è il meccanismo di deglutizione, che porta a difficoltà dell’atto del nutrirsi autonomamente. Nel caso del signor Romano, la malattia aveva colpito gli arti, immobilizzandoli: una paralisi parziale che sarebbe degenerata in una dipendenza in termini di nutrizione e, in generale, di movimento.
Dopo l’ok dall’Associazione, della “presa in carico” del caso, il signor Romano si è recato in Svizzera per l’ultimo atto della sua vita. Dopo l’ultima conferma data al medico della clinica, è stata autorizzata l’iniezione del farmaco letale.
Non sono mancate le denunce, virtuali, della moglie e della figlia di Romano. Le due non vogliono “legittimare” la decisione del marito e padre, bensì fare nuovamente luce su una condizione giuridica fallace del diritto italiano, che impedisce, appunto, quello di morire.
Da una parte si accusa un sistema, quello italiano appunto, che si rifiuta di riconoscere e mettere “a norma” la condizione di persone gravemente malate. La decisione di andare in un altro Stato è infatti fortemente sofferta da parte delle persone che scelgono di praticare l’eutanasia. Le costringe ad un viaggio lontano dai propri cari, dalla propria abitazione e soprattutto dall’affetto e dal calore che queste due danno.
La manchevolezza del diritto nostrano costringe, in secondo luogo, ad una presa di responsabilità dei singoli. Ci devono essere persone che si “sacrificano”, a livello giuridico, per permettere ad altre di esercitare il diritto di morire. Ci devono essere persone che si prendano il rischio di una condanna che può arrivare fino a 12 anni.
Quando Stato e società civile la pensano diversamente
Il caso di Marco Cappato, il servizio che mette a disposizione, è importante non tanto per la quantità di battaglie che pubblicamente porta avanti. Il rischio che sistematicamente si prende, che si concretizza nelle possibili condanne di reclusione, è presa di posizione contro l’immobilismo di tutta la classe politica. La speranza che incarna è forse l’unico faro per quelle persone che altrimenti sarebbero costrette ad una vita ancora più alienante di quella che – probabilmente – già conducono. Lo Stato nel mentre, come altri in Europa, continua a respingere le richieste che vanno in questa direzione: si ricordi infatti la bocciatura del referendum il 15 febbraio 2022.
Dall’altra parte, questo gesto è un esempio virtuoso di disobbedienza civile: la scelta – consapevole delle conseguenze – di violare una legge statale perché considerata ingiusta.
Siamo in uno Stato da sempre interessato alla regolamentazione dei corpi: un’attenzione particolare dato a tutto ciò che interessa la persona nella sua intimità e nelle sue scelte. Si pensi all’aborto e alle restrizioni recenti, sistematiche quindi per certi aspetti invisibili, sulla legge 194. Dall’altra parte, una società civile che rivendica continuamente il diritto di decisione sulla propria vita e quindi sulla propria morte. Con troppi ostacoli, troppe limitazioni spesso ideologiche, valoriali che non garantiscono una completa libertà personale.
Quello che Cappato, l’Associazione Luca Coscioni e persone come il signor Romano chiedono è il poter decidere per sé in maniera legale e legittima. Chiedono, per assurdo, qualcosa di semplice ma apparentemente inaccettabile: il diritto di disporre della propria persona, il diritto di morire.