La possibilità di spostarsi liberamente da un posto all’altro in cerca delle migliori cure per sé o per i propri figli dovrebbe essere scontata. In realtà non è così ovunque, di certo non nei Territori Palestinesi Occupati. Qui la morsa israeliana soffoca i diritti dei palestinesi, persino quelli fondamentali e inviolabili. A cominciare dal diritto alla salute. Perché è difficile riuscire a curarsi quando si vive in una prigione a cielo aperto, dove farmaci e apparecchiature sanitarie non possono entrare.
Il muro
La cosiddetta barriera di separazione o muro della vergogna, a seconda della prospettiva, è persino recensita su Trip Advisor come la 189sima cosa da vedere a Gerusalemme in una lista di 315. Parliamo di 700 chilometri di cemento di diverse altezze (da otto a due metri), alternati a tratti di sola recinzione, costruiti per l’85% su suolo palestinese. A partire dal 2002, per la sua costruzione sono stati sequestrati terreni coltivati e demolite case, interi villaggi, stalle e scuole. Ciò in modo del tutto illegale. Proprio per il fatto che non si trova sul confine, ma ben oltre, esso separa la popolazione palestinese dai propri terreni agricoli e da attività produttive, servizi e riserve idriche. Questo a ulteriore vantaggio degli insediamenti illegali dei coloni israeliani, ai quali sono addirittura riservate delle strade interdette ai palestinesi. Sul muro si è espressa in modo sfavorevole anche la Corte Internazionale di Giustizia, in un’Opinione consultiva del 2004.
Le zone di sicurezza e il blocco di Gaza
I Territori Occupati sono ulteriormente suddivisi in “zone di sicurezza”. Per spostarsi da una all’altra i palestinesi devono avere un permesso, rilasciato dalle autorità israeliane in modo del tutto arbitrario. Inoltre, l’ingresso a città, paesi e villaggi è praticamente bloccato da terrapieni e barriere erette dall’esercito. A ciò si uniscono tutta una serie di provvedimenti, dai coprifuoco ai posti di blocco, finalizzati a limitare la libertà di movimento dei palestinesi all’interno delle proprie terre. Provvedimenti che Israele adotta a questo scopo fin dal 1967, anno dell’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, e che sono a tutti gli effetti punizioni collettive, vietate dal diritto internazionale. Da oltre dieci anni, poi, il movimento di merci e persone provenienti o dirette nella Striscia di Gaza è sottoposto a rigido controllo da parte di Israele, per via del famoso blocco di Gaza in vigore dal 2007.
L’accesso alle cure
Tale situazione influisce in modo drammatico sulla vita dei palestinesi e sulla loro salute. Dal 2006 l’Organizzazione Mondiale della Sanità monitora l’accesso alle cure da parte dei palestinesi. Dai rapporti più recenti (fonte: Infopal) si nota come a un considerevole aumento del numero di richieste, corrisponda un costante calo dei permessi accordati. Nel 2012 le richieste approvate erano il 93%, nel 2017 meno del 55%, con cinquantaquattro persone morte nell’attesa. Nel mese di dicembre, delle 2170 domande presentate il 2,6% è stata negata e il 45% ritardata oltre la data di appuntamento con l’ospedale. A tre su cinque accompagnatori il permesso è stato negato. L’associazione italiana Medici per i Diritti Umani lo scorso ottobre ha diffuso un rapporto dell’associazione israeliana Physicians for Human Rights-Israel (PHRI) che evidenzia come Israele abbia ritardato di almeno sei mesi l’uscita da Gaza di donne malate di cancro che necessitavano di cure urgenti.
Il divieto di passaggio ai posti di blocco
Se la circolazione nei Territori Occupi è difficile quando i movimenti sono programmati, lo è ancora di più in condizioni di emergenza. Ciò si ripercuote soprattutto sulle donne che tentano di raggiungere un ospedale durante il travaglio. Una pubblicazione di Amnesty International del 2006 riporta le parole di Rula Ashtiya, costretta a partorire in mezzo alla strada il 26 agosto 2003 nei pressi del posto di blocco di Beir Furik, dopo che i militari israeliani le avevano impedito di raggiungere un ospedale di Nablus: “Al checkpoint c’erano molti soldati ma non ci consideravano… allora mi riparai dietro un blocco di cemento e partorii lì, in mezzo alla sporcizia, come una bestia. Dopo pochi minuti mia figlia morì tra le mie braccia…”. Rula non è la sola ad aver vissuto questa esperienza.
Senza vergogna
Nel corso di un’intervista nel settembre 2017, Ruchama Marton, fondatrice di PHRI, ha dichiarato: “Sono affascinata dall’argomento della vergogna. E’ un sentimento su cui ho lavorato per la maggior parte degli anni. Credo che senza vergogna non ci sia speranza per il mondo – non ci sia essere umano. Senza vergogna una persona può fare qualunque cosa. Una delle cose che ci sono successe è che abbiamo perso ogni vergogna. […]”.
Michela Alfano