La volgarità della campagna elettorale non accenna a diminuire. Trivialità e rozzezza vanno a braccetto con le incredibili – intendo letteralmente – promesse elettorali che sentiamo ogni giorno.
Probabilmente, il mitico Lucio Dalla – che il 4 marzo avrebbe compiuto 75 anni – si sarebbe divertito a notare l’attualità di un suo testo, nel quale ironizzava sulle esagerazioni di media e telegiornali.
“[…]Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno,
ogni Cristo scenderà dalla croce
anche gli uccelli faranno ritorno.
Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno,
anche i muti potranno parlare
mentre i sordi già lo fanno.
E si farà l’amore ognuno come gli va,
anche i preti potranno sposarsi
ma soltanto a una certa età. […]
L’anno che verrà – Lucio Dalla (1978)
Quarant’anni dopo gli slogan reali sembrano aver superato la fantasia artistica dell’autore bolognese.
Finita la battaglia dei simboli, l’attenzione si sposta sulla cosiddetta “guerra dei seggi”.
Anche in questo caso i partiti approfittano dell’occasione, per esibire la stessa armoniosa e pacata serenità di un gruppo di bambini di 6 anni mentre decidono chi dovrà calciare un rigore.
In un precedente articolo abbiamo riportato le preoccupazioni di Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, sugli attacchi alla lingua italiana.
Oggi facciamo un passo avanti chiedendoci:
La volgarità fa guadagnare voti?
La stessa domanda se la posero, già nel 2014 – quindi ancor prima della campagna elettorale di Trump, passata alla storia per finezza e raffinatezza – ,due ricercatrici dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
Nella loro ricerca dal titolo quanto mai evocativo “Swearing in Political Discourse – Why Vulgarity works” (Imprecazioni in politica – perché la volgarità funziona.), Nicoletta Gavazza e Margherita Guidetti ci danno una plausibile spiegazione.
La ricerca.
Le ricercatrici hanno sottoposto a 110 intervistati, di età compresa tra 20 e 68 anni, due fantomatici programmi elettorali. Pur esprimendo la stessa “linea” politica, in uno veniva usato un linguaggio volgare e nell’altro no.
Il focus della ricerca tralasciava tutti gli altri fattori, concorrenti all’effettiva scelta elettorale, per concentrarsi sul peso delle imprecazioni.
E’ emerso che inconsciamente le parolacce contribuiscono ad aumentare il consenso.
“esse danno a chi le ascolta un’alta impressione di informalità, avvicinando il politico alla gente e lasciando un segno che poi, in prospettiva, può tradursi in un voto.”
Tuttavia alla domanda esplicita “Voteresti per un candidato volgare?” La risposta è no. Quindi anche se ci vergogniamo ad ammetterlo, la volgarità sposta voti.
Il libro.
Di “Volgare Eloquenza” ha parlato anche, nell’omonimo libro del 2017, il linguista Giuseppe Antonelli.
Grazie anche al successo della sua rubrica domenicale, sul programma di Rai 3 “Kilimangiaro”, Antonelli difende la nostra varia e bellissima lingua, raccontando l’etimologia delle parole. In merito al linguaggio politico attuale egli dice:
“Nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue. Qualcuno a cui rivolgersi con frasi ed espressioni terra terra, cercando di risvegliarne bisogni e istinti primari. Da questa idea di popolo discende un’eloquenza volgare, rozza, semplicistica, aggressiva.”
Attraverso i social l’orgoglio della rozzezza diventa virale (parola che deriva da virus, dal latino “veleno”) e ci impoverisce tutti.
George Orwell nelle sue opere ci aveva messo in guardia dalla post-verità. Il linguista si sofferma sulla verità dei post e aggiunge:
“Dal «Votami perché parlo meglio (e dunque ne so più) di te» si è passati al «Votami perché parlo (male) come te». Come la pubblicità, come la televisione, anche la politica alimenta il narcisismo dei destinatari, i quali – lusingati – preferiscono riflettersi che riflettere. Il meccanismo del ricalco espressivo innesca una continua corsa al ribasso.”
La domanda a cui una politica ideale dovrebbe rispondere è …“Quale società vogliamo costruire per il futuro?” La domanda di oggi sembra essere “Come posso conquistare velocemente il potere fine a se stesso?”
In questo senso la logica del marketing è quanto mai azzeccata.
Il cervello rettile.
Gli studi di Paul MacLean sui “tre cervelli” ci hanno infatti dimostrato che il cervello c.d. rettiliano – formatosi nella fase primaria dell’evoluzione umana – è quello più sensibile a impulsi quali: sesso, paura, aggressività e violenza.
Hai notato che le pubblicità sono spesso incentrate su tali istinti primari?
In sostanza, quando sentiamo il politico di turno sproloquiare con termini rozzi, dobbiamo capire che non lo fa perché “è vicino alla ggente”. E’ una architettata e attenta operazione di marketing.
Quindi più che compreso, sentiti come un primate allo zoo. Uno zoo in cui ogni volgarità accettata contribuisce a rinforzare le sbarre della tua gabbia.
“L’istruzione rende liberi.”
José Martì
Daniele Fiorenza