Nella rete, ed in particolare su Instagram, si registra, specie negli ultimi anni, il proliferare di account dedicati a bambini. Spesso, tali account sono creati dai genitori che, in tal modo, esibiscono con orgogliosa ostentazione i propri figli, sicuri che le particolari caratteristiche estetiche o abilità dei propri bimbi non tarderanno a ricevere l’apprezzamento degli avventori dei social network, il che è spesso vero.
Questa dilagante tendenza, però, genera spesso anche critiche e preoccupazioni tra i followers.
Un caso che di recente ha fatto discutere è quello di Anna Knyazeva, che a sei anni può vantare un account Instagram (creato dalla mamma) vantante ben 731mila followers.
A darle tanta popolarità sono una serie di scatti nei quali è in primo piano l’indiscutibile bellezza della bambina, valorizzata attraverso pose alquanto “consapevoli” nonché mediante abiti non sempre in linea con la giovanissima età di Anna. Il tutto corredato da sapienti dosi di trucco e parrucco, per valorizzare in maniera impercettibile l’avvenenza della bambina.
L’immagine pubblica di Anna divide i suoi followers: se la maggior parte di loro, estasiati dagli occhioni blu della piccola, commentano con stupore e manifestazioni di apprezzamento, non manca, d’altra parte, chi si dice preoccupato per i rischi che tutta questa esposizione mediatica può comportare: sia a livello personale, ingenerando nella bambina un eccessiva attenzione verso il proprio aspetto fisico, a scapito di altre doti, aumentando rispetto al normale il rischio di esporla a disturbi alimentari, sia facendo riferimento alla pericolosità insita nel rendere pubblici, con la diffusione attraverso la rete, immagini ed informazioni personali.
Del resto, come dicevamo, quello della piccola Anna non è assolutamente un caso isolato, ma anzi si inserisce in una schiera molto ampia e variegata.
Oltre a profili analoghi al suo, nei quali è in primo piano l’aspetto estetico del piccolo protagonista, ve ne sono altri che puntano a far conoscere al pubblico della rete alcune caratteristiche peculiari del pargolo: penso all’account di Katie Ryan, che pubblica su Instagram della piccola e sveglia figlia Charlene, abilissima nell’imitare e nel recitare la parte di personaggi di sua invenzione (per lo più adulti e smaliziati, dalla donna in carriera alla trend setter); all’account della seienne Ghalia Rayhana, che si professa una giovanissima fashion designer e che pubblica foto dei propri outfit, a volte ispirati a quelli di molto più mature celebrità. Non mancano, poi, profili dedicati a bambini che a stento sanno parlare e che sciorinano a pappagallo parti impartite loro dai genitori.
Il movente della proliferazione di questo variegato panorama di profili social dedicati a bambini, però, qual è? Si tratta di semplice orgoglio genitoriale, che, col mutamento delle abitudini, adesso viene manifestato sui social anziché mostrando con gli occhi che brillano la foto nel portafogli come si faceva un tempo? Nì.
Perché, se questa è senza dubbio una delle ragioni, non è, almeno tendenzialmente, la sola: l’altra è che la creazione di questi account, spesso, si rivela un ottimo modo per ottenere sponsorizzazioni e contratti per i bambini, traducendosi, quindi, in una facile fonte di guadagni che cresce proporzionalmente all’aumento delle visualizzazioni.
In tutti questi casi, però, i rischi restano quelli avanzati dai followers di Anna Knyazeva: indebito utilizzo delle immagini concernenti i bambini (anche mediante modifiche che possono farli apparire in situazioni e contesti poco appropriati per l’età infantile); eccessiva focalizzazione di questi ultimi su alcune delle loro caratteristiche (in primis, ma non solo, l’aspetto fisico) e loro enorme dipendenza dai feedback dei loro seguaci; sovraesposizione degli stessi anche alle feroci critiche del web; utilizzo improprio delle informazioni riguardanti i piccoli (che, tra l’altro, possono essere utilizzate e conservate da chiunque una volta messe in circolazione in rete).
Una scelta, insomma, che alla lunga potrebbe destare più problemi che altro. Ne vale davvero la pena?
Lidia Fontanella