Arkadyi Shaikhet (1898-1959) si staglia quale una delle più significative firme nell’ambito della fotografia degli anni venti, documentando una fase di passaggio e di evoluzione del continente sovietico, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre. Il contesto artistico risente dell’afflato di rinnovamento in atto e sovverte i parametri visivi consolidati.
La cinepresa di Sergej Michajlovič Ejsenštejn stigmatizza uno sperimentalismo che svetta verso un concettualismo fondante, che dà vita su pellicola ad idee astratte, come un vero e proprio flusso di coscienza. Questo intellettualismo di fondo pervade ogni campo delle arti visive e l’opera di Arkadyi ne subisce la fascinazione. Egli accoglie il punto di vista cinematografico nei suoi scatti; l’individualismo voyeuristico dell’Uomo che segue e penetra l’immagine è il focus stilistico.
L’artista persegue la sequenzialità dei fermi immagine della pellicola cinematografica, inserendo questo stilema nei suoi flash. I soggetti esaminati e ripresi sono i vettori della industrializzazione, in particolare il ramo dell’industria pesante. Il paese sovietico attraversava un momento di grande fermento, acquisendo la consapevolezza dei propri mezzi e strumenti per fondare il proprio status.
I grandi macchinari assurgono a simboli di una emancipazione dell’individuo che ha il pieno controllo dell’elemento meccanico e materiale, agendo sulla propria forza ideale, spirituale, individuale come collettiva. L’immedesimazione della persona nell’insieme. Il popolo russo ha coscienza della sua organicità quale corpus unicum. Stessa fioritura si ha nel comparto agricolo, dove è in atto una trasformazione delle campagne, in seguito all’introduzione di tecniche più all’avanguardia, suffragate da conoscenze maturate nell’ambito (ad esempio i trattori a vapore).
Arkadyi ferma nei suoi scatti questo spirito rinnovato, questo attivismo, sia intellettuale che tecnico. La sua poetica è flessibile alle innovazioni in atto e stanzia le sue foto a un fondo di documentazione. Un fotogiornalismo di avanguardia, dove l’occhio ricopre il ruolo di Deus ex machina, di stampo cinematografico, ma l’animus è commosso e compartecipe di un nazionalismo rinato.
Costanza Marana