La nuova Legge di Bilancio 2018 prevede il raddoppio della tassa sul licenziamento collettivo dei lavoratori.
Da domani, licenziare un lavoratore costerà sino a 3mila euro; con l’inasprimento della sanzione ove non si è raggiunto un accordo sindacale.
La norma trova applicazione per quelle aziende con procedure di cassa integrazione straordinaria in corso che si vedono costrette ad effettuare licenziamenti collettivi.
La previsione normativa ha, però, un aspetto positivo per i lavoratori che potranno accedere a corsi di formazione durante i periodi di sospensione dell’attività e potranno cercare un impiego nuovo.
Vi saranno, altresì, degli incentivi a favore di lavoratori e di aziende che li assumeranno.
Ad oggi, la tassa sui licenziamenti è attualmente pari a 1.470 euro, per ogni lavoratore cessato che ha un’anzianità contributiva dai 3 anni in su: l’importo del ticket corrisponde infatti al 41% del massimale convenzionale Naspi, che ammonta a 1.195 euro, per ogni anno di anzianità lavorativa, sino a un massimo di 3.
Inoltre, dal 2017 il contributo sul licenziamento è triplicato nel caso in cui la procedura collettiva si concluda senza accordo sindacale.
Il ticket sul licenziamento è una tassa che il datore di lavoro deve pagare all’Inps se licenzia un lavoratore dipendente a tempo indeterminato: la tassa è però dovuta, oltreché nei casi di licenziamento, anche in alcune ipotesi di dimissioni del lavoratore, come quelle per giusta causa.
Il ticket, difatti, serve per finanziare la Naspi, la nuova indennità di disoccupazione per i lavoratori dipendenti, pertanto va versato insieme ai contributi Inps.
I casi in cui vi sarà il raddoppio della tassa sul licenziamento sono i seguenti:
Licenziamento per giusta causa;licenziamento per giustificato motivo soggettivo (licenziamento disciplinare);licenziamento per giustificato motivo oggettivo (licenziamento economico);licenziamento del lavoratore a chiamata, solo per i periodi lavorati che concorrono all’anzianità aziendale;dimissioni per giusta causa;dimissioni durante il periodo di maternità;mancata conferma dell’apprendista alla fine del periodo formativo;risoluzione consensuale conseguente a una procedura di conciliazione obbligatoria;fine lavori per i dipendenti del settore edile;cambio di appalto, con assunzione del dipendente da parte del nuovo soggetto appaltatore.
Al contrario, la tassa non deve essere versata in caso di: dimissioni (non per giusta causa o durante il periodo di maternità): nelle ipotesi di dimissioni ordinarie, infatti, il lavoratore non percepisce la Naspi, poiché non si tratta di perdita involontaria dell’occupazione;scadenza del contratto a termine: per finanziare la Naspi, se il contratto è a tempo determinato, il datore paga, al posto del ticket, un contributo addizionale pari all’1,40% della retribuzione imponibile;risoluzione consensuale al di fuori della procedura di conciliazione obbligatoria introdotta dal Jobs Act;
licenziamento del lavoratore domestico(colf e badanti);licenziamento di lavoratori assicurati presso la gestione Inpgi (giornalisti);licenziamento di operai agricoli;licenziamento di lavoratori extracomunitari stagionali;decesso del lavoratore;licenziamento del lavoratore collocato.
La suddetta tassa ammonta a 489,95 euro annui, per gli anni 2015, 2016 e 2017, dovuti per ogni anno lavorato, sino ad un tetto massimo di 3 anni.
Il pagamento va effettuato entro il 16 del 2° mese successivo al licenziamento.
Il ticket è, poi, soggetto alla denuncia contributiva.
Il fine non sembra quello di facilitare le assunzioni ma di soffocare, sempre di più, le aziende italiane ormai oberate di tasse.
Anna Rahinò