Da tradizione pressoché dimenticata ad evento che attira, per la propria peculiarità, ormai migliaia di persone ogni anno: stiamo parlando di “Fucacoste e cocce priatorje“, celebrazione che si svolge ad Orsara di Puglia– paesino dei Monti Dauni che annovera circa 2.700 abitanti- nella notte tra il primo ed il due novembre.
La cosiddetta “Notte più luminosa dell’anno” ha avuto il pregio di far conoscere ed apprezzare il piccolo e grazioso centro di Orsara di Puglia (attirando, tra il 2007 ed il 2016, circa duecentomila visitatori, con un media di ventimila persone l’anno- con un picco nel 2014, quando, complice una diretta Rai legata all’occasione, il paesino ha accolta ben quarantamila persone).
Il motivo della grande attrattiva esercitata da “Fucacoste e cocce priatorje” sui turisti è presto detto: con i suoi falò di rami di ginestre organizzati per le strade da famiglie e gruppi di amici, attorno ai quali si consumano banchetti di cibi poveri stagionali da condividere; le zucche intagliate con all’interno delle candele, poste dietro le porte e le finestre di ogni abitazione; la suggestiva processione della Confraternita delle Anime del Purgatorio; i numerosi stand che offrono degustazioni di cibi e vini per i turisti, la festa presenta tutti gli ingredienti per attirare un pubblico vasto.
Per di più, “Fucacoste e cocce priatorje” mostra delle analogie impressionanti con l’anglosassone Halloween, come ad esempio l’uso delle zucche.
Non a caso, noi stessi ve ne abbiamo parlato accostandola ad Halloween ed ad altre tradizioni popolari con caratteristiche analoghe qui:
https://www.ultimavoce.it/31-ottobre-halloween-tradizioni/
La tradizione orsarese di “Fucacoste e cocce priatorje“, però, presenta già in sé una storia affascinante e ricca di un forte significato, che faticosamente un sacerdote locale, don Rocco Malatacca, ha ricostruito in un libro dedicato proprio a questo momento: “Di Luce e d’Ombra” (Tau editrice, Todi 2016).
Scavando a fondo nella memoria degli anziani del posto e nei documenti riguardanti Orsara, infatti, l’autore è riuscito, con un lungo e laborioso lavoro, ad individuare una precisa sequenza rituale legata alla festività di “Fucacoste e cocce priatorje“, dietro la quale si celano la profondità e l’autenticità della fede popolare.
Innanzitutto è bene precisare che si tratta di una celebrazione antichissima, addirittura risalente a prima dell’anno Mille.
Il rito, poi, ha origini spagnole, precisamente galiziane: ciò in quanto Orsara di Puglia era, per l’appunto, una fondazione della Galizia. Di conseguenza, il paesino mutuò da questa regione spagnola le proprie tradizioni ed usanze, facendole proprie ed, in tal modo, mantenendo sempre la propria peculiarità rispetto ai centri limitrofi. Non a caso, la festività di “Fucacoste e cocce priatorje” presenta forti analogie con celebrazioni analoghe della Galizia, come la romería– cioè la processione- del Venerdì Santo.
“Fucacoste e cocce priatorje” veniva, allora come oggi, celebrata nella notte tra il 1- Ognissanti- ed il 2 novembre- giorno della commemorazione dei defunti. La scelta di tale momento era densa di significato: la festa, infatti, era dedicata tanto ai vivi quanto ai morti.
Il tempo dedicato agli uni ed agli altri era scandito precisamente in parti uguali: sei ore per i vivi, il primo novembre; sei ore per i morti, il due novembre.
Tutto aveva inizio verso le diciotto del giorno di Ognissanti, all’imbrunire: era l’ora dei Vespri, le preghiere serali. Tutta la comunità si riuniva in Chiesa.
Sull’altare venivano poste delle candele, che nel corso della celebrazione venivano benedette; per proteggere la fiamma dal vento, esse venivano conservate per tutta la notte sull’altare all’interno di zucche intagliate.
L’intaglio, però, non ricordava quello tipico di Halloween: sulle zucche, infatti, veniva tracciata la sagoma di una croce (le zucche stesse, peraltro, non erano in origine quelle che associamo a questo periodo dell’anno, ma erano verdi e dalla forma allungata).
A seguire, alle nove– orario in cui già per i Romani iniziava una nuova parte della notte, la seconda vigilia-, gli orsaresi tornavano a casa e si riunivano con tutta la famiglia attorno alla tavola per una solenne cena.
I preparativi per questo momento conviviale interessavano tutti i componenti del nucleo familiare ed occupavano l’intera giornata: gli uomini raccoglievano fascine di ginestre e tagliavano la legna per il falò serale, le donne preparavano un’abbondante cena ed i ragazzini intagliavano zucche- sempre col simbolo della croce- da legare a porte e finestre, con all’interno una candela.
La scelta di lasciare le zucche col simbolo della croce ad ogni potenziale ingresso delle case aveva un significato ben preciso: si voleva così allontanare, nella cosiddetta “notte del Purgatorio” (“priatorje” significa per l’appunto questo), i dannati, impedendo loro di partecipare al banchetto, così consentendo l’accesso soltanto alle altre anime.
La matrice cristiana era fortemente richiamata anche da molti altri elementi: la tavolta imbandita con al centro il pane ed il vino ed un piatto unico di pietanze agevolmente raggiungibile da tutti i commensali; la tovaglia, bianca, come quella posta sull’altare, su cui poggiavano le candele benedette.
Il simbolo della zucca non abbandonava, tra l’altro, neanche la tavola imbandita: poiché l’invito a partecipare alla cena era esteso alla famiglia in senso allargato, non era raro che i bicchieri presenti in casa non bastassero per tutti: ecco che allora ci si trovava ad intagliarne altri con le zucche avanzate. In tal senso, “cucce priatorje” farebbe per l’appunto riferimento al bicchiere di vino servito in occasione di questo banchetto, definito per estensione anch’esso “Purgatorio”.
Allo scoccare della mezzanotte le campane della Chiesa di Santa Maria delle Grazie- dove era attiva l’Arciconfraternita dei Morti, detta Congregazione delle Anime del Purgatorio- annunciavano che il tempo dei vivi era finito: iniziava una nuova vigilia, iniziava il tempo dei morti.
A quell’ora, la Confraternita dava inizio ad una processione penitenziale per le vie del paese, che si sarebbe protratta sino alle tre del mattino.
I confratelli, tutti uomini (le donne rimanevano in casa ed i bambini andavano a letto), vestiti di nero e con in testa un cappuccio- perché nessuno li riconoscesse- giravano per Orsara e bussavano a tutte le porte, elemosinando del cibo da ridistribuire ai poveri.
La richiesta che facevano era, più precisamente, quella di ricevere “l’aneme d’i murt” (letteralmente, “l’anima dei morti”), vale a dire qualcosa che avanzava dal banchetto (anche per questo, si cucinava in misura molto abbondante).
Data l’ora tarda ed il freddo novembrino, portavano in mano, rivolta verso l’esterno, una lanterna per scaldarsi: per questo, la processione/ questua veniva definita dei “Fucacoste” (vale a dire, con accanto il fuoco).
Intorno alle tre aveva inizio una nuova vigilia e la cerchio rituale di “Fucacoste e cocce priatorje” si richiudeva.
Si faceva, infatti, ritorno alla Chiesa, per ricongiungersi pienamente con le anime morte– in un certo senso, anche fisicamente, considerando che, fino all’epoca napoleonica, le spoglie dei morti venivano conservate in Chiesa.
Qui aveva luogo la cosiddetta “Messa nera”, definita in tal modo in ragione del fatto che tutti i confratelli erano ancora vestiti di nero e la stessa Chiesa era rivestita di nero o viola.
I riti di “Fucacoste e cocce priatorje” si concludevano al sorgere del sole, quando anche le sei ore dedicate ai defunti terminavano.
Riti similari venivano svolti anche nel nord della Galizia, riconfermando l’eredità spagnola di questa tradizione orsarese.
“Fucacoste e cocce priatorje” rimane senz’altro, ancora oggi, un evento estremamente suggestivo, oltre che un’importante traccia di memoria storica e culturale per la popolazione orsarese.
Lidia Fontanella