Per anni, i videogame sono stati visti con duplice sguardo. Il primo, estasiato dalle possibilità di intrattenimento che questo medium può garantire (raggiungendo, talvolta, vette che possono essere definite vera e propria arte). Il secondo, preoccupato da quello che sembrava un mondo incomprensibile, che avrebbe/stava rovinando i giovani, più interessati alla vita virtuale che a quella reale. Questa preoccupazione era/è a oggi legittima?
I videogame non sono più il demonio
Oggi, il capro espiatorio sembra cambiato (chi ha parlato di Social Network?) e la società sembra essere più o meno pronta ad accettare questa forma di intrattenimento (grazie anche al fatto che i videogiocatori di un tempo sono i genitori di oggi) al pari della lettura, della musica o della cinematografia, che infatti a volte si combinano tra loro. Inoltre, ci sono diversi benefici che i videogame possono promuovere (vedi qui o qui). Ciò non toglie che un uso eccessivo di qualsiasi cosa, sia essa una sostanza (eroina, cocaina, ecc.) o un comportamento (gioco d’azzardo), possa portare a una condizione di disagio fisico, psicologico e sociale che non può essere ignorato. Qual è dunque lo stato dell’arte in merito?
Dipendenze da sostanza e non solo
Partiamo subito specificando che la dipendenza da videogame non è esattamente classificata come una dipendenza vera e propria. Nell’ultima versione del manuale usato dai professionisti della salute psichica scritto dall’America Psychiatric Association (APA) – cioè il celebre DSM-5 – esiste un capitolo sulle dipendenze. In questo capitolo, le dipendenze elencate sono tutte da sostanza (come alcol, stimolanti quali anfetamine, cocaina, ecc.) tranne una, il gioco d’azzardo patologico (GAP), per la quale esiste una mole consistente di studi che hanno permesso la sua inclusione in maniera chiara e precisa all’interno del DSM-5. Per tutte le altre potenziali dipendenze comportamentali (quindi che non prevedono l’uso di una sostanza), l’APA ha preferito andarci con i piedi di piombo a causa della mancanza di un sufficiente e univoco numero di ricerche disponibili.
Dipendenza da gioco su internet (IGD)
Per questa ragione, la formulazione di un possibile Disturbo da gioco su internet (Internet Gaming Disorder; IGD) è stata inserita nella sezione III: “Condizioni che necessitano di ulteriori studi”. In questo modo si auspica che i ricercatori approfondiscano il fenomeno per fugare ogni dubbio, per cui i set di criteri di questa sezione servono solo a fornire un linguaggio comune ai professionisti interessati alla ricerca in questi ambiti e dunque non sono finalizzati all’uso clinico. Alcuni ricercatori si sono dunque dati da fare, pubblicando un nuovo studio i cui risultati mettono in discussione se non l’esistenza stessa dell’IGD, quanto meno i set di criteri elencati nella sezione III del DSM-5.
La risposta dei ricercatori
Questa ricerca ha diversi punti a suo favore, come l’utilizzo di un campione molto grande (ben 2.316 persone) e rappresentativo della popolazione degli Stati Uniti, mentre solitamente queste ricerche si basano su piccoli campioni di convenienza reclutati da forum di giochi online. In secondo luogo, si tratta di una ricerca longitudinale, cioè che non si sofferma sullo studio di una certa popolazione in un ben preciso momento, ma la segue nel tempo per capire se ciò che si sta osservando ha una certa stabilità. Per questo, i ricercatori hanno sottoposto al campione un questionario per verificare la presenza dei criteri indicati dal DSM-5 in due momenti: all’inizio della ricerca e dopo sei mesi.
L’IGD è veramente un disturbo?
Il DSM-5 specifica che, per parlare di IGD, è necessaria la presenza di almeno cinque dei nove criteri diagnostici indicati. Di quasi 2.000 persone, alla prima somministrazione del questionario solo nove soggetti soddisfacevano almeno cinque di questi criteri. Ancora più sorprendentemente, sei mesi dopo il numero di giocatori che superava la soglia dei cinque o più sintomi si era abbassato ad appena tre. Tuttavia bisogna essere prudenti. Questo studio si affida pur sempre a misure soggettive, limitando l’oggettività dell’osservazione. Inoltre, è probabile che la situazione nei Paesi Asiatici sia diversa. E voi? Siete videogiocatori o detrattori? Come la vedete? Credete che i fondi sulla ricerca debbano quindi concentrarsi su tipologie di dipendenza conclamate o che bisogna approfondire il fenomeno perché l’IGD esiste e va trattato? Fatecelo sapere con un commento.
Davide Camarda