Due monete e due mercati di lavoro
Il socialismo cubano è oggi un ibrido, figlio del tempo, della geopolitica e della morte del suo leader, Fidel Castro Ruz, il 25 novembre scorso alle 22.29 all’Avana. Fidel è morto a novant’anni, sessant’anni dopo la partenza del vascello Granma che diede il via al processo rivoluzionario. Chi ha voglia di parlarne, la descrive come “la perdita di un genitore”. Mentre gli esuli di Miami hanno festeggiato la morte del “dittatore” scendendo in strada.
Il funerale del lider maximo è durato nove giorni e le sue ceneri giacciono ora a Santiago de Cuba accanto a Josè Martì, eroe dell’indipendenza cubana. Nei primi due mesi dalla morte, la tomba è stata visitata in media da 2mila visitatori al giorno. Nella terra dove un busto bianco di Josè Martì non si nega a nessun luogo che si rispetti, il pensiero di Fidel è ancora sui muri e per le strade, in una strana forma di psicanalisi collettiva. La sua foto è negli uffici, nei musei, nei cinema. A volte, quasi timidamente, affiancata da quella del fratello Raul. Nelle case dei cubani, ai muri sono appese le immagini di famiglia: figli, nipoti, matrimoni e ricordi. Raramente sbuca un Che Guevara, preferibilmente nella posa iconica della foto di Alberto Korda, tormentone delle magliette di tutto il mondo.
Il socialismo cubano è figlio, ancora prima, del ritiro dalle scene di Fidel, con il passaggio di poteri al fratello Raul nel 2006, che a sua volta dovrebbe cedere la presidenza l’anno prossimo. A chi? Come? La figlia di Raul, Mariela, secondo alcune ricostruzioni in lizza per la successione, ha fatto sapere in un’intervista alla BBC che il prossimo presidente di Cuba non farà “Castro”, di cognome: “Qui non c’è una dinastia”. Da più parti si parla anche dell’attuale vice presidente, Miguel Diaz-Canel, come possibile successore di Raul.
Trinidad è una città coloniale messa a lucido a beneficio delle foto dei turisti. Colori, montagne, il mare in lontananza, le signore con i bigodini sedute sui gradini di casa, il barbiere, i bambini che giocano, una donna dallo sguardo perso che gira con in mano una ciotola piena di pezzi mal tagliati di carne cruda dal colore luminescente. Le case del centro sono tutte anche alloggi per turisti. I ristoranti non si contano. I negozi di souvenir, di scarsa fantasia in quanto ad offerta, neppure. C’è il mercatino di ordinanza. La città fa su e giù tra salite e discese e strade acciottolate a prova di caviglia e le casette hanno tutte un colore diverso. Anche fuori dal centro le case sono colorate, ma qui ci sono solo cubani.
E di sera l’illuminazione delle vie è praticamente assente: restano le luci delle case aperte, tutte sintonizzate sullo stesso programma tv – presumibilmente una telenovela. In molte, l’altare dedicato alla dea della santeria. “Ho fatto l’insegnante per anni”, racconta Tamara. Gestisce una casa particular a Trinidad: quando la figlia si è sposata, si sono messi tutti a lavorare con il genero, proprietario di alcuni immobili, creando un piccolo “impero” di case per turisti. “Adoravo stare a scuola con i bambini. Ma ora guadagno infinitamente di più”, racconta con un sorriso mentre spadella uova fritte per la colazione degli ospiti.
Nell’ibrido cubano convivono due monete e due economie parallele: la “libreta de racionamento” con cui i cubani accedono alla (insufficiente) vendita di cibo e beni sovvenzionati dallo Stato e il mondo parallelo in cui si muovono i turisti e tutti i servizi concepiti per loro. Il turista è destinato al suo circuito dedicato. E rappresenta l’unica (diffusa e copiosa, ma appunto unica) fonte di gettito di denaro privato. Che, ovviamente, attira i cubani.
A Morón, piccola cittadina al centro dell’isola, a poca distanza dal paradiso caraibico hemingwayano di Cayo Guillermo e dall’inferno di gru e hotel in costruzione, una turista poco accorta vuole pagare un pacchetto di sigarette cubane senza filtro e un caffè sventolando una banconota da 10 cuc, la moneta convertibile parificata al dollaro, ovvero poco meno di dieci euro: il corrispettivo di una settimana di lavoro per l’addetto del bar che la guarda perplesso. Anche volendo, l’uomo davanti a lei, il resto, in moneta nazionale, forse non lo avrebbe nemmeno. E la moneta convertibile dei turisti, in questo bar non turistico, non circola. Con pazienza cerca di chiedere all’europea un pezzo più piccolo, molto più piccolo, di denaro. Alla fine pesca dalla mano della confusa turista una moneta da cinquanta centesimi di cuc. La mette in cassa, restituendo tre pesos in moneta nazionale, le sigarette e quel caffè amaro (le ha anche appena chiesto se vuole lo zucchero nel caffè, e a risposta negativa si è molto stupito, perché Cuba dello zucchero è il regno). Costo finale dell’operazione: 40 centesimi e una buona dose di incomunicabilità.
A Playa Larga, sulla costa sud dell’isola, Eberto racconta di avere tre figli con tre donne diverse: hanno 18, 12 e 7 anni. Fa la guida, escursioni naturalistiche nella zona della Baia dei Porci, da otto anni. “Prima ho lavorato nella cooperativa del pesce e in un banchetto di vendita. Ma questo è il lavoro che preferisco: andare in giro con i turisti”. Da anni Raul Castro annuncia – senza mai dare seguito – l’imminente abolizione del sistema di doppia valuta su cui si basa l’economia cubana. L’operazione, secondo alcune stime, potrebbe richiedere un processo di 18 mesi. Il sistema è in vigore dal 1994 e prevede che i cubani usino la moneta nacional, il peso cubano (cup): è la moneta con cui vengono pagati gli stipendi dei lavori statali e con cui si acuistano i beni di prima necessità. E vale infinitamente meno dell’altra valuta che circola nell’isola, per i servizi e nel circuito dei turisti: il peso convertible (cuc). Il cuc vale quanto il dollaro (e l’euro), e 25 volte un cup. Risultato? La scena di cui sopra: a un turista può succedere di pagare un caffè un euro, come in Italia, o meno di 20 centesimi in un locale fuori dal circuito turistico. Un cubano difficilmente si recherà in un bar turistico a pagare una colazione cinque euro, ovvero praticamente un quarto di uno stipendio statale da medico.
Il sistema è stato concepito per proteggere l’economia dell’isola. Ma i “mercati paralleli”, oggi più di ieri, non fanno altro che alimentare i divari.