Alcuni mesi fa, Papa Francesco ha detto, a proposito delle virtù necessarie per essere discepoli accoglienti:
“Se non hai coraggio, stai zitto, e abbassa la testa”.
Affrontare l’immigrazione può anche c’entrare poco con il motociclismo, salvo che per questo minimo comun denominatore: il coraggio. E, passando dal sacro al profano, ma neanche troppo, se c’è un emblema del coraggio, nello sport di oggi, è Valentino Rossi.
Solo un romanzo immaginario poteva narrare di un ritorno in pista, dopo 24 giorni, e di un quinto posto nel Gran Premio di Aragona, dopo la frattura di tibia e perone: in pratica, una mutilazione. A meno che?
A meno che non ti chiami Valentino Rossi, e la tua testa abiti in uno spazio inaccessibile, a cavallo fra la realtà quotidiana, e i cartoni animati, dai quali sembra uscire quell’eterna faccia da bambino.
https://youtu.be/zz1126KIzAU
Da una parte, ci può essere lo scandalo per la pazzia, che consiste nell’esporsi ad un handicap ancora peggiore. Per non citare, ma questo non dipende dall’atleta, lo spirito di emulazione, che spinge i ragazzi, che lo vogliono imitare, alle soglie dell’irreparabile.
Dall’altra, c’è la capacità di sopportare il dolore, con gli anticorpi della passione: ha più dell’eroico, che del folle. E c’è la certezza, almeno questa volta, che non sia stata nessuna prospettiva di guadagno materiale, a spingerlo ai confini del “calvario sportivo”.
Voi siete liberi di scegliere. Io scelgo la seconda chiave di lettura, e ricordo una frase del mitico Enzo Ferrari, titolo di un libro, che esprimeva quanto possa esserci di “straordinario” in certe persone:
“Piloti, che gente!”
L’importante sarebbe accorgersi più spesso, come accadde per i soccorritori di Rigopiano, saliti sul palcoscenico del Festival di Sanremo, di quanti altri esempi di coraggio restino nel buio. Anche loro meriterebbero le stesse copertine di Valentino, che, nel suo genere, resta un fenomeno solo da applaudire.