Una rappresentazione terribilmente realistica del dramma familiare causato da un padre violento. Il film di Xavier Legrand dal titolo Jusqu’à la garde, in concorso alla Mostra di Venezia, è un pugno nello stomaco.
Tradotto in italiano il titolo significa ‘l’affido’. Ed è proprio dal confronto dinanzi al giudice per l’affidamento dei figli, che il regista francese comincia a raccontare la storia della famiglia Besson.
Una storia come ce ne sono tante, In Francia come Italia, che affronta un problema grave come quello della violenza domestica. “Ho scelto questo argomento perché ho voluto lavorare sul tema della famiglia e della casa”, ha spiegato Legrand in conferenza stampa. “E mi sono reso conto che la casa è il luogo in cui nasce la famiglia e in cui ci si sente più sicuri. E paradossalmente è il luogo dove possono nascere grandi pericoli come appunto la violenza domestica”.
“Credo sia importante parlarne. E’ vero, se ne parla tanto, ma l’argomento rimane comunque un tabù e non viene messo in evidenza”, ha detto il regista francese. Che prima di realizzare il film ha studiato questa piaga sociale in modo approfondito: “gli aspetti che non si conoscono sono molti. L’elemento principale è la paura delle vittime e il loro modo di affrontarla. Ho studiato molto. Ho parlato con persone coinvolte direttamente, con psicologi che si sono occupati di uomini violenti, con giudici, con personale dei servizi sociali e con le forze dell’ordine“.
Il risultato è un’opera che rappresenta con estrema efficacia la tensione crescente nella quotidianità di una famiglia afflitta da questa piaga sociale. Tensione che investe il pubblico in modo quasi insopportabile. “Credo che sia il punto di vista della sceneggiatura a creare questo malessere”, ha detto Legrand. “Ho voluto seguire un uomo con problemi di violenza, che tenta di tenerla nascosta. E poi il punto di vista dell’uomo sui suoi nemici. Il suo tentativo di manipolare la moglie, il figlio, le persone che ama“.
La forza del film sta nel non esprimere giudizi a priori. Nel non indurre lo spettatore a schierarsi fin da subito. “Non volevo che moglie e marito passassero per vittima e carnefice”, ha confermato il regista francese. La situazione degenera in maniera lenta ma decisa. Sono i gesti e le parole che rivelano progressivamente l’indole iraconda del marito. Nel quale “c’è dell’amore, ma è troppo, malato e morboso. E’ violento perché rifiutato”, ha osservato Legrand. Che ha scritto la storia senza farsi condizionare da opere precedenti. “Non mi sono ispirato ad altri film. E’ vero, ho pensato a Shining, ma non mentre giravo. Quella è fantasia. Io volevo rappresentare la violenza vera, così com’è”.
L’attrice Léa Drucker ha vestivo i panni della moglie. Una donna riflessiva, attenta a non cadere in reazioni scomposte difronte al ritorno sempre più insistente de “l’altro”, nomignolo significativo affibbiato al padre dei suoi figli. “Mi sono lasciata attraversare dalle sensazioni, da tutto quello che succede nella storia. Ho pensato che la passività è un modo di proteggersi”.
“Non dovevo essere un carnefice”, ha ribadito l’attore Denis Menochet, che ha interpretato il ruolo del padre. “Ho imparato molto dalle testimonianze che ho visto. Dalle quali emerge un modello comportamentale che viene utilizzato dai padri violenti per vendicarsi e per indurre gli altri a fare quello che serve per raggiungere i loro obiettivi. Poi, prima delle scena con i genitori di lui, ho avuto la storia della famiglia ed ho capito l’origine della violenza e il modello”.
Jusqu’à la garde: il film
Difronte al giudice per l’affidamento, gli avvocati battagliano senza esclusione di colpi, mentre il signore e la signora Besson ascoltano in silenzio. Al termine del confronto è impossibile dire se abbia ragione Antoine Besson o Miriam Besson. Se la diciottenne Josephine (Mathilde Auneveux) e soprattutto il piccolo Julien (Thomas Gioria), siano davvero spaventati dal padre o siano stati manipolati dalla madre. Fatto sta che il giudice concede ad Antoine due fine settimana ogni mese da trascorrere con Julien.
Inizialmente il padre non sembra quell’orco che Miriam e i due ragazzi hanno raccontato nelle dichiarazioni consegnate al giudice. Nonostante le reticenze e il broncio del piccolo Julien, il primo incontro avviene in tranquillità, con la visita ai nonni paterni. Ma pian piano l’atteggiamento di Antoine si fa sempre più aggressivo. La compagnia di suo figlio non basta. In lui si fa evidente il desiderio di riconquistare ciò che ha perso. Julien vien subissato di domande. Alla fine Antoine si fa dire dove abitano e si presenta in casa, dove scoppia in una crisi di pianto difronte a Miriam, a cui ripete d’essere cambiato.
Arriva il giorno della festa di compleanno di Josephine. Suo padre Antoine si presenta all’ingresso con un regalo. Miriam lo raggiunge per respingerlo, lui l’afferra per la gola, e la sorella di Miriam interviene minacciando di chiamare la polizia. Antoine sale in auto e fugge via. La tensione è altissima.
Nel cuore della notte, Miriam e Julien vengono svegliati dal citofono impazzito e poi terrorizzati dalle urla di Antoine, che adesso è dietro la porta con il suo fucile da caccia, ed è tornato ad essere l’orco descritto all’inizio della storia.
Nelle scene successive la cinepresa sta addosso a madre e figlio per vivere assieme a loro, con un realismo angosciante, attimi interminabili di terrore. La telefonata alla polizia, già avvisata dalla vicina di casa. E la fuga nel bagno, dove i due si barricano per poi rannicchiarsi nella vasca. Fuori si odono i colpi di fucile e le urla di Antoine. Il tempo sembra essersi fermato. Miriam e Julien trattengono a stento i loro gemiti di paura. Poi finalmente arriva la polizia, che arresta Antoine ancora inferocito. Madre e figlio sono salvi. Ma la violenza subita resterà per sempre nel loro cuore e in quello degli spettatori.
Michele Lamonaca