La parola “profughi” viene ripetuta decine di volte e in lingue talmente differenti tra loro da darci subito l’idea dell’enormità di un fenomeno destinato a rivelarsi inarrestabile, se non si interverrà sui fattori scatenanti. Ovvero l’assalto del Nord del mondo ai danni del Sud, lo sfruttamento dei paesi sottosviluppati ma ricchi di materie prime e l’economia reale subordinata alla roulette della finanza.
Il film Human Flow del regista cinese Ai Weiwei, in concorso al 74° Festival del Cinema di Venezia, è un giro del mondo seguendo le tracce dei milioni di profughi costretti a vivere lontani dalla loro terra natia, e privati dei diritti fondamentali.
Ai Weiwei e il flusso umano
Nel corso della conferenza stampa di presentazione lo stesso regista ha confessato che “realizzarlo è stata una lotta costante” e che “mentre lavoravo, mi chiedevo se anch’io facessi parte di quella umanità dimenticata“. “Nel frattempo – ha aggiunto Weiwei – abbiamo dovuto affrontare e superare situazioni difficili, cercando nello stesso tempo di farci coinvolgere dalle persone che abbiamo incontrato per raccontare al meglio la loro condizione”.
Condizione terribile. Perché quella dei profughi è “una tragedia umana“, ha affermato il regista. Eppure “conosciamo le risposte” per rimediare a quanto sta accadendo. Ma “se falliremo, è necessario sapere che siamo tutti collegati” e che le conseguenze ricadranno sul’intero genere umano.
Per il momento la questione dei profughi – secondo i dati Unhcr nel mondo sarebbero 65 milioni – viene affrontata nel modo sbagliato. “Parlare di problemi burocratici, di leggi, non risolve il problema”, ha spiegato Weiwei. “Sbagliamo punto di vista. Siamo un unico flusso“. E quindi le politiche nazionali di chiusura nascondono una visione ipocrita e opportunistica. Invece “serve far pressione sui politici per affrontare davvero il problema. Perché le situazioni tragiche, sparse per il mondo – ha osservato Weiwei – rischiano di diventare totalmente ingestibili”.
L’artista cinese è conosciuto nel mondo come designer. La realizzazione di Human Flow ha rappresentato per lui un novità assoluta. “Come artista lavoro individualmente, invece questo film ha richiesto l’uso di tante persone, di macchine, di un’industria. Per me è stata un’esperienza nuova e unica”, ha ammesso l’autore.
Un film del genere rischia di apparire vecchio difronte alla cronaca giornaliera dei mass media. “Ma non è così perché, trattandosi di cinema, abbiamo trovato un linguaggio indipendente da quello delle televisioni e dei giornali”, ha spiegato Weiwei. “E non riguarda solo ciò che vedevo, ma anche l’estetica delle immagini e il rapporto dei fatti attuali con la storia passata”. Inoltre “abbiamo cercato una prospettiva globale, per filmare una situazione globale. Nulla a che vedere con l’informazione stringata offerta dai mezzi di comunicazione tradizionali”.
Human flow: il film
Weiwei si è mosso con la sua telecamere tra la gente dei campi profughi allestiti in vari angoli del pianeta, toccando 22 Paesi. Ma ciò che davvero colpisce del film sono le inquadrature prese dall’alto. Più i droni si alzano in cielo e più l’inquadratura rivela l’incredibile somiglianza di questi luoghi, ovunque essi siano. Perché gli uomini sono tutti uguali, anche nella sofferenza.
Ad accompagnare le immagini, poche e scarne didascalie, con numeri, titoli di giornali, brevi resoconti dei soccorritori. Quanto basta a fornire le informazioni necessarie per leggere negli occhi di un primo piano la vastità di una tragedia di portata planetaria.
Il regista cinese ha viaggiato tra i 277 mila siriani fuggiti in Iraq per salvarsi dalla strage in corso nel loro paese. Li ha incontrati sull’isola di Lesbo e nel campo di Idomeni, sulla confine tra Grecia e Macedonia. Ha fissato su pellicola il dramma dei Rohyngyas, minoranza musulmana che in Bangladesh ha dovuto subire gli orrori della pulizia etnica. Ha fatto visita ai rifugiati siriani accolti in Giordania, circa 1 milione e 400 mila persone. Ha raccolto le testimonianze dei curdi, che in 500 mila sono fuggiti dai loro villaggi rasi al suolo dall’esercito turco.
Weiwei si è occupato dei 3 milioni di profughi accampati in Turchia senza vedersi riconosciuto lo status di rifugiati; dei 2 milioni di fuggitivi nel piccolo Libano. Ha filmato i disperati del Kenya, in fuga dai conflitti subsahariani, dalla mancanza di cibo e acqua provocata dai cambiamenti climatici.
L’artista cinese è stato a Lampedusa. E poi in Pakistan, dove i rifugiati afghani, scacciati dalle autorità locali, stanno tornando in patria. Ha visitato Berlino e gli hangar-città, dai quali non si può uscire. E’ stato a Calais nelle baraccopoli sgomberate dai poliziotti. E infine sul confine tra Usa e Messico, dove Trump ha fatto erigere il suo muro. Altro aspetto orribile che accompagna lo “human flow”, visto che sono ormai 70 i paesi che nel 2016 hanno eretto muraglie e barriere presidiate.
Al termine del film, l’impressione globale ricercata da Weiwei c’è tutta, e ci ricorda solo una cosa: siamo tutti uguali, e tutti legati allo stesso destino.
Michele Lamonaca