William Oldroyd si era già fatto un nome in Gran Bretagna come uno dei più prolifici e geniali registi dello storico teatro Old Vic. Per il suo esordio al cinema decide di adattare la novella del 1865 di Nikolaj Leskov, Lady Macbeth del distretto di Mtsensk con una sceneggiatura di Alice Birch, la quale porta il testo sullo schermo con modifiche importanti e necessarie per il funzionamento del film.
L’ambientazione passa dalla Russia al ventoso Northumberland, regione dell’Inghilterra a confine con la Scozia, che tanto rassomiglia allo Yorkshire della grande Emily Brontë, quasi resa spirito benigno per i riferimenti, anche inconsci ed involontari, che il paesaggio e i personaggi scatenano in rapporto a Cime Tempestose.
Il finale, non certo consolatorio, è completamente trasformato: l’isolamento non corrisponde all’esilio e ai toni voluti da Leskov ma ad un vuoto altrettanto efficace e definito.
La storia si concentra su Catherine (Florence Pugh), novella sposa di Alexander Lester (Paul Hilton), laido, noioso, brutale proprietario terriero, per niente interessato a lei. La casa è effettivamente sotto il controllo del padre di lui, Boris (Christopher Fairbank), quasi animalesco nel suo essere crudele. Con l’assenza dei due per urgenze di lavoro, Catherine rimane sola con la timida e remissiva serva Anna (Naomi Ackie) e fa conoscenza con un nuovo servo, Sebastian (Cosmo Jarvis).
Tra la padrona e lo stalliere scatta una passione selvaggia: più che amore, come ci si aspetterebbe, è desiderio elevato a sistema, in bilico tra D.H. Lawrence ed il gotico puro. Per prolungare la libertà ed il desiderio appena scoperti Catherine comincia a cadere in una spirale di sangue, omicidi, non dissimile a quella della sua ispiratrice shakespeariana.
Da questo calderone di tensioni ed eventi noi abbiamo non solo un magnifico esordio ma anche un film intensissimo e con una gestione del ritmo perfetta. La fotografia splendida di Ari Wegner punta per la maggior parte a movimenti minimi, prediligendo la stabilità e la secchezza tranciante dei campi con riferimenti alla pittura del danese Hammershøi per la luce e la gestione dei corpi.
Gli interni così odiati dalla protagonista sono resi claustrofobici almeno quanto ricchi di respiro risultano i ventosi esterni delle brughiere, ammirati nella loro vastità in splendidi e tempestosi campi lunghissimi.
La scelta degli attori è perfetta, come del resto è visibile dalla straordinaria protagonista e dai suoi comprimari. La loro simbiosi con i luoghi è sensazionale e dona con il montaggio dosato e non invadente il ritmo limpido e virulento, così speciale alle scene dove ogni suono suggerisce la minaccia della violenza incombente. Nel film le atmosfere hanno uno spirito forte quanto quello dei personaggi.
Elegante e rigoroso, il film ha tutto ciò che serve per narrare con forza incandescente il vizio e l’oscurità del desiderio e forse, oltre che un film sulla crudeltà, è un’opera su uno stato d’animo: la solitudine. Quella della protagonista è congegnata come un simbolo, un uroboro che ne delimita il significato e la struttura del film che la esprime.
Antonio Canzoniere