Parlare di “coppie di fatto” e “minoranze sessuali” sembrerebbe “cosa di oggi”. Invece, non erano meno diffuse, quando la Chiesa controllava strettamente la società. Di questo tratta Giovanni Romeo, docente di Storia moderna presso l’Università di Napoli Federico II. Stiamo parlando del suo: Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Napoli 1563-1656 (2008, Laterza).
Il saggio tratta della repressione dell’amore libero e della sua propugnazione filosofica (“eretica”) nell’età della Controriforma, concentrandosi su Napoli. “…la svolta maturò nel tardo Cinquecento […] Prima di allora, sia i concubini, sia gli eretici della porta accanto erano stati tollerati o ignorati. È ovvio perciò domandarsi perché per entrambi arrivò la resa dei conti. Per quanto riguarda le eresie spicciole, la risposta è facile. Finirono nel mirino degli inquisitori, insieme alle superstizioni e alla bestemmie, per una precisa strategia giudiziaria adottata dalla Congregazione del Sant’Ufficio nel corso degli anni Settanta del secolo” (Amori proibiti, p. VII).
È meno semplice comprendere come si fosse arrivati a criminalizzare il concubinato. Il Concilio di Trento fissò regole severe, per accentuare il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche nel matrimonio. Fu l’applicazione a non poter essere puntuale. “Le coppie di fatto erano molte, in Italia come in tutta l’Europa di ancien régime, e comprendevano una quota consistente di ecclesiastici. Soprattutto, non erano sole nel ‘disordine’ delle loro scelte: la rigida etica sessuale raccomandata dalla Chiesa era diffusamente disattesa e spesso aspramente criticata. C’erano inoltre difficoltà per i vescovi. Stanare i concubini toccava a loro, non agli inquisitori. […] si rischiava di snaturare l’identità e il ruolo delle Curie vescovili, di sbilanciarle nettamente sul versante repressivo. Tra le autorità ecclesiastiche non mancarono perciò preoccupazioni e riserve.” (Op. cit., p. VIII).
Ciò non arrestò la svolta repressiva nella pastorale: soprattutto a Napoli, dove i giudici della Curia arcivescovile avevano sia i poteri ordinari di ogni foro vescovile (quindi, anche il controllo delle “coppie di fatto”), sia il diritto di punire gli eretici (compresi coloro che difendevano la scelta di vita dei concubini). In altre parole, seppero sostituirsi all’apparato repressivo laico. La Curia arcivescovile non seppe però guidare l’educazione spirituale dei cittadini ed evitare la pioggia di scomuniche.
Una vicenda-tipo è quella di don Colangelo Perfido Fedele, giovane prete lucano. Nel 1596, le guardie della Curia arcivescovile irruppero nella sua camera di Napoli, dove dormiva con la vedova Perna Monaco. Con lei e con la sua figlia di primo letto, il sacerdote coabitava da più di due anni. Oltre all’accusa di concubinato, pesava su di lui quella di negromanzia, ovvero eresia. Da quest’ultima “incriminazione”, don Colangelo fu prosciolto. Non così per la relazione con Perna, che gli costò cinque anni di esilio. A metterlo nei guai erano state “la sua socievolezza, la vasta rete di rapporti che si era costruito e l’invidia per gli incarichi ricevuti” (op. cit., p. 5). Dagli amici mi guardi Iddio…
Nella Napoli dell’epoca, peraltro, fiorivano non solo molte convivenze more uxorio, ma anche pratiche magiche d’ogni genere, che coabitavano col culto dei santi e col devozionismo diffuso. La confessione di precetto era largamente aggirata. La figura del parroco era insignificante nella vita di fede, rispetto a Ordini religiosi, confraternite e membri della famiglia. A metà del XVI secolo, dunque, era impensabile un controllo ecclesiastico capillare sulla vita dei napoletani. Ed essa fu un osso duro anche in piena Controriforma.
Della sorte dei figli, le autorità ecclesiastiche non si occupavano. Perlomeno, non ci sono documenti a riguardo, se non una condanna del 1610 che imponeva a una concubina di allontanare i sei figli, eccetto quelli che avevano meno di tre anni. Per il resto, le testimonianze riguardano “l’internamento forzato nei Conservatori delle figlie delle donne pubbliche […] e il problema dei diritti ereditari dei figli del ‘peccato’ riconosciuti.” (Op. cit., p. 53).
In questo quadro, non può mancare la “sodomia”. Essa sola (così come il concubinato) non bastava a dare adito all’accusa di eresia. Però, nel 1550, un prete bresciano fu condannato a morte dall’inquisitore per queste imputazioni:
“l’elogio dei piaceri della sodomia e il richiamo insistito ai rapporti amorosi tra Cristo e san Giovanni.” (Op. cit., p. 67).
Nel 1591, un gruppo di frati, chierici, giovani e giovanissimi furono sorpresi dall’Inquisizione napoletana.
“Essi erano parte di un ampio giro di omosessuali, che gravitava attorno a un vero e proprio bordello […]” presieduto da un ecclesiastico (p. 107).
Essi organizzarono anche due cerimonie nuziali fra uomini. La “luna di miele” si svolse, però, nelle carceri dell’Inquisizione romana.
I casi descritti da Romeo, naturalmente, sono assai più numerosi. Il suo bilancio di questa persecuzione è nettamente negativo. Le abitudini sessuali proibite non scomparvero; in compenso, furono distrutte le vite di molte persone. Né si registrò un miglioramento nella spiritualità dei napoletani. Un monito scottante contro qualunque tentazione di intransigenza.
Erica Gazzoldi