L’idea delle “arti sorelle” non è nuova; era propria, in particolare, degli Scapigliati di fine ‘800. A modo loro (umile e autobiografico), l’hanno ripresa la poetessa Barbarah Guglielmana e la fotografa Anna Venturini. Dall’incrocio delle loro arti, è nato un libro di discreta e curiosa bellezza: Andavo per nuvole e onde (2016, Albalibri Editore). Le nozze fra immagine e parola cominciano dalla copertina: un infinito tappeto di nuvole si distende sulla riva del mare, che spruzza i piedi di un faro. Il volume è inserito nella collana “Le parole e l’arte”, diretta da Alberto Figliolia.
È programmatica la frase posta in epigrafe: “Lo scopo ultimo del viaggiatore è non sapere più ciò che sta contemplando. Ogni essere, ogni cosa è occasione di viaggio, di contemplazione” (Lie Tseu). È quanto accade leggendo questo libro. I versi della Guglielmana e gli scatti della Venturini traggono ispirazione da luoghi reali (Pavia, Londra, Oskfjord…), ma – una pagina dopo l’altra – si è spinti a dimenticare la loro collocazione spazio-temporale. Diventano entità assolute.
L’ideazione di Andavo per nuvole e onde è narrata dalle autrici stesse, nell’introduzione: “Il lavoro nasce in un pomeriggio dell’inverno 2010. Anna sta passeggiando per una Pavia di gennaio appena innevata con la sua adorata macchina fotografica, Barbarah invece sta scrivendo una poesia sulla stessa neve…” (p. 7). Il libro segue il filo conduttore delle loro vite, tant’è che poesie e fotografie sono datate e recano l’indicazione del luogo in cui sono state realizzate. Per rendere ancora meglio l’idea del viaggio, la prima immagine riporta i binari della stazione di Pavia, da cui entrambe sono idealmente partite. Dopo l’introduzione di Anna e Barbarah, è stata posta la presentazione di Tomaso Kemeny, poi il testo Le immagini, le parole di Fabio Boni. Indi, si parte.
Grazie all’immaginazione della Guglielmana, la Pavia invernale diventa la Siberia di un romanzo russo (p. 17). E molti altri luoghi ed epoche, in cui la poetessa immagina le vite che avrebbe potuto vivere. Fra Le ombre del castello aragonese, danza quella di Vittoria Colonna (Marino, 1490 – Roma, 1547): la “poetessa amorosa” che attende il marito lontano per la guerra. I suoi occhi sono quelli di un gabbiano che scruta – e la sua solitudine quella dell’autrice.
“Sono andata via/suonando i miei piedi sui fili d’erba/ […] Prima di quel temporale che ti slava i sentimenti/che ti svuota l’animo…” (p. 26). Così scrive Barbarah. E, accanto, ci sono le Escape routes immortalate da Anna: finestre e balconi da cui, a volte, si immagina di calarsi… o tuffarsi.
“Le fotografie di Anna Venturini sono storie semplici” scrive Fabio Boni, a p. 13. Sono figure di barche ferme sul cristallo di un lago. Sono passanti che nuotano nei colori di un muro; ragazze sedute su una panchina, col velo della tradizione indosso e la modernità dello smartphone nelle mani. Sono porte ancora chiuse, ma con la promessa d’introdurre in un’altra epoca, o in una storia d’amore. Il finale è l’interno di una casa, sbirciato attraverso una tendina. Accanto, i versi della Guglielmana cantano L’ocra dell’autunno, che annuncia “il tempo di riposo” (p. 53).
Erica Gazzoldi