Sono ormai mesi che nelle televisioni italiani e nelle principali piazze web si combatte una rumorosa guerra linguistica che trova terreno fertile sulla pelle di tutti coloro che, per diverse ragioni, attraversano il Canale di Sicilia o le montagne turche per trovar fortuna in Europa.
Senza dilungarmi troppo sulle motivazioni e sulle conseguenze di questo fenomeno e senza voler cogliere l’occasione di esprimere la mia opinione in merito credo che alcune precisazioni debbano essere fatte.
L’altro giorno mi è capitato di ascoltare (e di avergli fatto qualche domanda) Matteo Salvini che, durante un comizio elettorale, ha illustrato all’attento pubblico i dati sugli sbarchi e sull’accoglienza in Italia.
Più del 60% dei richiedenti asilo viene respinto
Questo è stato l’esordio. Ovviamente ho verificato la frase del leader del Carroccio, che a tutti gli effetti si è rivelata essere corretta. Tuttavia il discorso del segretario leghista non si è fermato al solo dato statistico e, in vari passaggi, si è spinto fino ad affermare che
Chi sbarca in italia non è un profugo, è un clandestino!
e ancora
Ci impediscono di usare questo nome ma ci assumiamo ogni responsabilità nel farlo: sono clandestini!
Argomenti quotidianamente sulla bocca di tutti e da tempo sdoganati anche fra i politici del Movimento 5 Stelle (i taxi del Mediterraneo di Di Maio sono l’ultima vergognosa prova).
Una delle passioni che ho sempre nutrito è stata quella di ricercare l’etimologia delle parole ogniqualvolta una di queste suscitasse in me anche solo la più piccola delle perplessità. Ho sempre creduto che la conoscenza della radice dei vocaboli fosse la base per poterli assimilare al meglio. O quantomeno per farsi una vaga idea di ciò che si comunica.
Sul banco della vivisezione, questa volta, c’è ovviamente finito il clandestino.
Clandestino ha origine latine e viene da CLAM-DES-TINUS. CLAM significa “di nascosto” e si ritiene che insieme a DIES volesse alludere a colui che si nasconde al giorno, ovvero chi sta nell’ombra.
Clandestino ha anche una sua accezione giuridica. In Italia si è considerati “clandestini” quando, pur avendo ricevuto un ordine di espulsione, si rimane nel paese.
I migranti (dal latino migratio, che si spostano da un luogo ad un altro) arrivando in Italia vengono spesso presi in carico dalle autorità italiane che, per legge, sono tenute ad identificarli.
In quell’esatto istante la persona viene schedata e portata in un centro d’accoglienza. In nessuno di questi passaggi il migrante si nasconde (sono le stesse barche a chiedere aiuto nella maggior parte dei casi) e dunque non è ancora possibile parlare di clandestino.
Da quel momento il migrante diventa immigrato (participio passato, che è passato da un luogo all’altro) e richiedente asilo, ovvero in attesa del giudizio di una commissione che ha il compito di accettare o meno la richiesta di rifugio.
Il rifugiato ha anch’esso un significato politico preciso. Secondo la convenzione di Ginevra «è una persona che nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato».
Profugo è una parola usata in modo generico (dal verbo latino profugere, cercare scampo, composto da pro e fugere, fuggire). Potrebbe esser considerata al pari di “rifugiato” ma solo questa definizione ha di fatto un valore giuridico preciso.
Per usare la parola clandestino non serve di certo coraggio né sprezzo per fantomatiche censure. Basterebbe un po’ d’amor per la lingua italiana e un pizzico di onestà intellettuale per ridarne il giusto significato. Senza dimenticare che, comunque la si pensi, si sta parlando pur sempre di esseri umani, molti dei quali perdono la vita per attraversare i virtuali confini fra gli stati.
Questa emergenza umanitaria forse meriterebbe qualcosa di più di una banale speculazione politica e di uno stupro della nostra lingua madre