Immaginate una proiezione privata de Il Trionfo della Volontà di Leni Riefenstahl, il film in cui la regista tedesca mostrava al mondo la potenza e l’efficienza della Germania del 1936 e soprattutto la tenebrosa figura di Adolf Hitler. Mentre Renè Clair, uno dei due registi ospiti, rabbrividiva di fronte all’epopea nazista, l’altro si sganasciva dalle risate ad ogni apparizione del leader: il suo nome era Charlie Chaplin.
I monologhi, le pose, la prosopopea e la pomposità di Hitler gli apparivano talmente eccessivi e ridondanti che non capiva come mai nessuno ci trovasse qualcosa di ridicolo, ma, anzi, praticamente chiunque temeva o si faceva soggiogare dalle urla scomposte di quell’omino che si aggiustava continuamente il ciuffo.
Purtroppo c’era poco da ridere, perché intere popolazioni erano sempre più piegate dall’ombra che i regimi totalitari stavano allungando con le loro minacce, strepiti e urla: gli appetiti di queste dittature le avrebbero presto portate a fagocitare tutto il pianeta.
Charlie Chaplin a metà degli anni 30 poteva dirsi appagato e soddisfatto della sua carriera: le comiche durante il periodo del muto con Charlot protagonista avevano riempito i Cinema e reso ricco e famoso il loro autore. Nonostante fosse un uomo abituato a far ridere, Chaplin non poteva ignorare quello che aveva visto nel film della Riefenstahl e s’impose di mostrare cosa in realtà fosse quella dittatura e gli uomini su cui si fondava.
I grandi artisti sono soprattutto quelli a cui non bastano soldi e fama, ma devono per forza trovare il modo di comunicare con il loro pubblico e a volte spiegare loro come stanno veramente le cose. Da qui nasceva il progetto che sarebbe sfociato ne Il Grande Dittatore: un film che smontava il giocattolo nazista dalle fondamenta, ironizzando sulla grossolanità dei suoi capi e sulle idee che li sostenevano.
Il “non expedit” della Gran Bretagna, che si sbrigò ad ammonirlo sul fatto che lì il film sarebbe stato vietato, lo avvertiva però che una satira su di un Capo di Stato come Hitler non era cosa gradita, soprattutto perché molte potenze occidentali vedevano in lui un baluardo contro le crescenti spinte comuniste e lo consideravano un bravo legislatore, nonostante qualche eccesso che comunque non sembrava loro preoccupante.
Non facendosi scoraggiare, Chaplin decise comunque di buttarsi in questa avventura, conscio di quanto fosse in gioco: Il Grande Dittatore non solo era un film che attaccava direttamente uno degli uomini più temuti e potenti del mondo, ma per la prima volta l’artista inglese si metteva alla prova con il sonoro, cosa che fino a quel momento aveva evitato quasi del tutto nei suoi ultimi Luci della città e Tempi moderni.
La storia del film si svolge nella Tomania oppressa da un regime dittatoriale e vede Charlie Chaplin occupato nella parte dei due protagonisti. Uno di questi è il barbiere ebreo privo di memoria, che, tornato a casa dopo anni in ospedale, non comprende quanto avviene nel suo paese e attacca gli sgherri del dittatore Adenoid Hynkel, l’altro personaggio interpretato dall’attore.
Il barbiere ha molte delle caratteristiche del Vagabondo, come la malinconia e l’inconsapevole coraggio, oltre ad un’umanità che lo rende disperatamente estraneo al clima di violenza e tirannia che lo circonda. La sua indole conquista l’amore di Hanna (interpretata da Paulette Goddard, compagna di Chaplin all’epoca), ma le Camice Grigie di Hynkel non lasciano loro possibilità di un futuro tranquillo.
La figura del Dittatore è quella che si presta maggiormente agli spunti comici di Chaplin (gli scontri con Napoloni sono assolutamente esilaranti, così come la messa in ridicolo della gestualità e dei toni di Hynkel durante i suoi comizi), nonostante lasci emergere anche tutta la malvagità e la grottesca personalità del personaggio.
Per puro caso il barbiere verrà scambiato per il Dittatore e potrà parlare a milioni di persone nel mondo: il Discorso all’Umanità è uno dei momenti più toccanti del Cinema di Chaplin, che tenterà senza successo di invertire la rotta che la Storia ormai aveva intrapreso.
La Seconda Guerra Mondiale era già iniziata quando il film stava per essere completato e Chaplin decise di cambiare in corsa il finale. Il Grande Dittatore che uscì nelle sale nel 1940 aveva il lungo monologo finale di Chaplin che voleva essere un ultimo ed estremo tentativo di far sentire una voce, la “sua voce”, quella che a lungo era rimasta nascosta nei suoi film e che ora richiamava alla speranza un’umanità irriconoscibile e preda di un’escalation di violenza.
Il Discorso all’Umanità può apparire forse una forzatura nel contesto del film, che magari con un altro finale sarebbe stato ancora più organico e riuscito nella sua poetica visione contro ogni forma di guerra e violenza, ma è condivisibile il tentativo comunque irrinunciabile di Chaplin nel provare a risvegliare le coscienze assopite o travolte dagli eventi.
Il Grande Dittatore è comunque uno dei film più belli e sentiti di Chaplin, che prova a far capire al suo pubblico e al mondo quanto tutto quello che stava accadendo fosse illogico e assurdo: la sua idea dell’uomo non è questa folle corsa verso l’autodistruzione e l’odio.
Si dice che se Charlie Chaplin avesse realizzato quattro o cinque anni prima Il Grande Dittatore, Hitler e il Nazismo non sarebbero potuti arrivare a scatenare il loro arsenale d’odio e persecuzione sull’Europa e su gran parte del pianeta: una risata li avrebbe seppelliti e ridicolizzati per sempre.
Purtroppo non andò così.
Luca Divelti