Il rito domenicale della violenza
Era il 2007 e, per chi se lo ricorda, fu l’anno in cui ebbe maggiore rilievo il fenomeno della violenza nel calcio. Sotto accusa gli ultrà, i tifosi violenti, coloro i quali avevano iniziato a vivere lo sport per eccellenza in una forma malata.
Umberto Galimberti il 5 febbraio 2007 dedicò un articolo, pubblicato su “la Repubblica”, a quello che lui incoronò come il “rito domenicale della violenza”.
“Qui i colori politici sono irrilevanti, perché il calcio si è sempre definito, con un po’ di ipocrisia, “politicamente neutrale”, e questa neutralità apre le porte al piacere dell’eccesso, allo sconfinamento dell’eccitazione, al rituale ripetuto della messa in scena, alla festa del massacro, alla socievolezza dell’assassinio, al lavoro di gruppo dei complici, alla pianificazione della crudeltà, alla risata di scherno sul dolore della vittima, dove la freddezza del calcolo è inscindibilmente intrecciata alla furia del sangue, la noia dello spirito alla bestialità umana.
Finito il rito della crudeltà tutti spariscono, e solo le registrazioni delle telecamere consentono di individuare qualcuno di quei pavidi che si nascondono nella massa per i loro gesti di violenza. Si sentono innocenti, semplicemente perché non sono in grado di fornire uno straccio di giustificazione ai loro gesti. L’ignoranza e l’ottusità che li caratterizza sono, ai loro occhi, un’attenuante. L’analfabetismo mentale, verbale ed emotivo con cui rispondono a chi li interroga sono per loro una giustificazione.
La loro violenza è cieca perché è assurda, ed assurda perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno scopo. È puro scatenamento di forza che non si sa come impiegare, e perciò si sfoga nell’anonimato di massa, senza considerazione e senza calcolo delle conseguenze. La mancanza di scopi rende la violenza infondata, e quindi assoluta. Ma proprio nel momento in cui la violenza è libera da qualsiasi considerazione e da qualsiasi scopo, e quindi da qualsiasi razionalità, la violenza diventa completamente se stessa e si trasforma in pura e sfrenata crudeltà.”
Il fenomeno della violenza nel calcio non si fermò lì. Cambiano le misure, la sicurezza aumenta, così anche le pene inflitte. Tutto inutile.
“L’orgia della crudeltà si ripete con la monotona regolarità con cui si succedono i sabati e le domeniche di campionato.”
I fatti
L’articolo di Galimberti partiva da un episodio tragico. Dopo il derby Catania – Palermo fu ucciso un poliziotto. Le autorità parlarono chiaro allora, l’unica soluzione possibile arrivati a un tale livello di delinguenza era interrompere il campionato. Anche la nazionale fu coinvolta nella decisione del commissario straordinario della Figc Luca Pancalli.
Sono passati dieci anni da quel tragico evento, eppure la violenza all’interno degli stati non è mancata, come anche al di fuori di questi.
È il 19 febbraio 2015 e 44 tifosi del Feyenoord devastano la fontana della Barcaccia, in piazza di Spagna. Ci gettano al suo interno bottiglie di vetro, la trattano come fosse una discarica, fino a scheggiare l’opera del Bernini, per altro a suo tempo da poco restaurata.
Una violenza cieca che aggiunse al danno la beffa di un governo olandese non predisposto a pagare i danni causati dai suoi tifosi. Divenne un caso politico con i suoi 5,2 milioni di euro in danni plurimi.
Quella violenza dei “facinorosi da stadio” colpiva nuovamente, devastando la capitale.
Questo viaggio all’interno della violenza più codarda arriva ad oggi, 11 marzo, il sabato successivo all’anticipo di Juventus – Milan e nella fattispecie agli spogliatoi devastati nel post partita dello Stadium, stando alle indiscrezioni, ad opera di alcuni giocatori rossoneri.
La partita si era conclusa con un di rigore oggetto di grandi polemiche concesso al 97’ dall’arbitro Massa dopo un consulto con il collega d’area Doveri per via un fallo di mano del milanista De Sciglio sull’ultimo cross.
I giocatori del Milan sono furibondi, la Juventus esulta la vittoria. Ma gli allenatori, Montella e Allegri, richiamano alla serenità.
Così non è stato, quel rito di violenza indomata ha forse raggiunto la peggior forma di degrado, quella che consente di trattare la proprietà altrui in maniera vandalica, che autorizza la violenza di fronte a una rabbia concitata e ingiustificata – parliamo pur sempre di uno sport – “l’euforia di un incontrollato sconfinamento di sé, di una sovranità illimitata e di un’assoluta libertà dal peso della morale e del vincolo sociale.”
“L’ultimo rifugio degli incapaci”
I “facinorosi da stadio”, finché i loro idoli, con alcuni atteggiamenti, li autorizzeranno a fare della violenza la risposta alla non condivisione di un risultato, non cambieranno. Le società, finché lasceranno che i loro ragazzi si comportino così non cambieranno un clima pregno di tensione. E la violenza che ruota attorno al mondo del calcio non troverà finalmente la parola fine.
Giacomo Losi, ex allenatore nonché difensore storico della Roma, terzo nel record di presenze all’interno del Club della Capitale, in un’intervista rilasciata a “la Repubblica” tre anni fa dice:
“A 19 anni mi ritrovo a Roma, un mondo da scoprire. Senza sapere che con la maglia giallorossa giocherò 386 partite di cui 299 da capitano. E che mi chiameranno Core de Roma, ma anche Palletta perché saltavo come se rimbalzassi. Oggi la chiamano forza esplosiva, allora un difensore non era valutato solo in centimetri. E io, come difensore, sui palloni alti non stavo incollato all’attaccante, anzi. Sui corner, mi piazzavo sul primo palo, importante era capire in anticipo dove sarebbe andato il pallone, e a quel punto saltavo con una breve rincorsa. Giocavo sulla palla, non sull’avversario. Sarà anche vero che oggi il calcio è più veloce e tecnico, ma mi sembra troppo esasperato e meno pulito, quasi più una recita che uno sport. Ma lo sa che ci sono ragazzini di 12 anni col procuratore? A quelli che alleno, al Nuova Valle Aurelia, insegno il rispetto delle regole. Che sono importanti. Io, per tanti anni capitano, all’arbitro mi rivolgevo dandogli del lei e con le mani sempre dietro la schiena. Oggi vedo cose da Far West, placcaggi, insulti, gestacci e cose così. Non va bene”.
Parole che fanno riflettere su questo triste rito che, come scriveva Isaac Asimov, è “l’ultimo rifugio degli incapaci”.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Ilaria Piromalli
Fonte immagine: www.repubblica.it
*Per mio padre, che da amante del calcio, mi ha insegnato il senso di uno sport che non riconosce la sua essenza nella violenza. Grazie*