Il discorso di commiato di Barack Obama ha chiuso otto anni di grande importanza.
Luci ed ombre segnano il bilancio della presidenza del primo afroamericano giunto al timone della massima potenza mondiale.
In questa sede non staremo a proporre una analisi passo passo di questo bilancio.
Di sicuro, già a metà strada era chiaro che sarebbe stato segnato dalla dualità: fra risultati ottenuti all’interno, da Obama, e risultati conseguiti all’estero.
E al completamento della sua presidenza, questo discorso appare rafforzato.
Perchè la sensazione è che, se i primi quattro anni siano stati per l’appunto contradditori e in chiaroscuro, ma complessivamente positivi – il secondo mandato di Obama invece sia stato declinante.
Proprio la vittoria di Trump – che rappresenta almeno sul piano dei valori una ripulsa delle politiche e del messaggio di Obama – dimostra quanto il bilancio finale sia davvero al limite della sufficienza.
Perchè, dopo il primo mandato si poteva sostenere che, a fronte dei disastri di Bush jr., Obama aveva comunque realizzato notevoli progressi.
Però, in definitiva a far data nel 2012 aveva solo saputo rimediare una grossa parte dei danni economici, diplomatici e culturali prodotti dal predecessore.
Ma poi, sarebbe dovuta giungere la fase del rilancio vero e proprio : questa non è giunta.
E quindi per equanimità dobbiamo dire che, rispetto alle speranze e alle attese che avevano portato in volo Obama sino allo Studio ovale, i risultati concreti sono troppo modesti.
I successi all’interno, sono stati sopravanzati dalle manifestazioni di debolezza all’estero: questo è stato un notevole carburante per la retorica dell?America “great again” di Trump.
Il fallimento della politica estera di Obama
Il punto insomma è che la chiave, il nodo intorno a cui si è aggrovigliato il progetto Obamiano è la politica estera.
E la radice di questa incapacità di sciogliere questo nodo si trova nella personalità di Obama, cioè nella sua forma mentis.
Perchè questa mentalità in definitiva è la stessa dell’Occidente postmoderno, che non crede più davvero in una propria missione storica.
O perlomeno, nel fatto di caratterizzarsi in valori non negoziabili: cioè, nel valore universale della democrazia e dei diritti umani.
Si tratterebbe di riconoscere l’autonomia e la pari dignità di altre civiltà e culture – accanto a quella democratica e umanistica occidentale.
Invece, in dieci anni al massimo, si è passati da una larvata (nenache troppo) “guerra di civiltà”, della democrazia contro “islamofascismo” e “stati canaglia” – per finire in una situazione in cui non si crede proprio più neanche nell’esistenza di una civiltà democratica.
Per cui l’Occidente sarebbe in tutto e per tutto la patria di una colossale ipocrisia – e i diritti umani e la democrazia sarebbe solo la mascheratura delle pretese di espanzione del mercantilismo e dello sfruttamento da parte del capitale, a danni di culture esotiche.
Può darsi : ma si badi che questo è esattamente quanto sostenevano molti fascisti anni addietro, e quasi tutti i regimi non-democratici oggi (dalla Cina alla Turchia alla Russia all’Arabia Saudita ecc.).
Da Bush a Obama
Obama nel 2008 sostituì, è vero, la retorica guerrafondaia dei bushisti e dei teocon.
I quali propugnavano una “paternalistica” e “benevola” aggressione planetaria in nome della democrazia e delle radici cristiane (cristiano-ebraiche secondo alcuni di loro) delle altre regioni del mondo.
Una saldatura, quella sì davvero ipocrita, fra le ragioni della democrazia e del capitalismo, in cui l’ideologia democratica e quella neoliberale si venivano a saldare.
Con la argomentazione che l’espansione del capitalismo avrebbe portato quella della democrazia e dei diritti umani – e viceversa.
(Per non ricordare il presupposto che al crescere della ricchezza di pochi, sarebbe seguita una maggiore ricchezza per tutti – se sale il livello del mare, salgono tutte le barche, ed altre amenità).
Con ciò, davvero il bushismo con la sua guerra di civiltà serviva a mascherare l’espansione del capitalismo e della finanziarizzazione della vita umana.
E la “esportazione della democrazia” serviva a mascherare realmente l’espansione dell’Occidente e del suo capitalismo – in accordo con le élites delle altre regioni, che non si sentivano certo minacciate da una interpretazione della democrazia così limitata e strumentale.
La democrazia ridotta a “capitalismo compassionevole” andava di certo più che bene ai leader neoconfuciani – ovvero autoritari – del capitalismo cinese.
O di altre regioni: basti guardare all’esempio eccellente del Vietnam.
Capitalismo e democrazia : equilibri precari
Il punto è che in realtà capitalismo e democrazia sono due forze che si trovano in reciproco, precario equilibrio : non possono fare l’uno a meno dell’altra, ma non si identificano.
Anzi: gli ultimi anni hanno dimostrato definitivamente quanto il capitalismo, senza freni, divori la democrazia – riducendola tutt’al più ad un involucro di procedure, senza contenuto sostanziale.
E non parlo “solo” dei diritti sociali.
Parlo anche dei diritti di libertà, individuali – quelli che stanno a cuore ad ogni liberale del mondo.
Infatti, sulla scia dell’umiliazione del lavoro e dei lavoratori, e della crescente disuguaglianza sociale, la regressione democratica ha condotto sino alla messa a repentaglio di valori e diritti che credevamo ormai al sicuro, in Occidente per non dire altrove.
La vittoria di Trump, col suo linguaggio e i suoi propositi, dimostra quanto si è detto sinora.
Essa giunge dopo le esperienza, diverse ma simili, di Erdogan, Xi Jinping, Putin.
Personaggi che con Obama hanno avuto molto da discutere.
Per non dire di fenomeni che ora capiamo finalmente tutti quanto fossero anticipatori ( e non arcaicizzanti) : come la Rivoluzione khomeinista in Iran del 1979.
L’avanzata delle democrature : l’uomo forte al comando
Insomma, dittatura populistiche o comunque impiantate su procedure democratiche, almeno nella loro forma minima, si sono diffuse, consolidate, e soprattutto si sono messe in rete fra loro.
E non si vergognano più di non corrispondere ai canoni democratico-liberali.
Fate un paragone fra il Putin che sentiva di dover mettere in piedi la sceneggiata della sua rinuncia a un terzo mandato, nel 2010, per “retrocedere” a Primo ministro, e poi ritornare sul trono nel 2014 – perché tre mandati consecutivi sembravano troppo platealmente antidemocratici.
Fate un paragone fra quel Putin e il mondo di oggi: e vedrete che differenza.
Oggi, quella che potremmo chiamare “democratura”, sintesi di democrazia e dittatura – e vera sottomissione della democrazia al capitalismo e all’ineguaglianza sociale ed economica – oggi questo assetto retorico e culturale appare egemonico.
Persino In Israele, dove il capitalismo ha prodotto grandi ineguaglianze e un revival del più vieto nazionalismo, vediamo che il governo si allontana progressivamente dai crismi della democrazia sostanziale.
La democrazia liberale sta insomma subendo un sorpasso, in termini di appeal, da parte della democratura.
Il soft power non basta
Tutto il contrario di quello che si era ripromesso Obama, nel 2008, quando rilanciò il soft power.
Che avrebbe dovuto rappresentare il potere di seduzione morbida, amichevole, gentile ma irresistibile, della democrazia occidentale rispetto ad altre culture.
Putroppo, il “soft” ha fallito.
Inizialmente, aveva funzionato in Europa – dove, nel 2008, serviva di meno.
Poi Obama non ha potuto far altro che assecondare la secolare spinta americana ad interessarsi più del Pacifico, dell’Asia, del resto del pianeta.
E trascurare l’Europa: che d’altra parte, precipitata in un declino ormai grave, non ha fatto nulla per “meritarsi” maggiori attenzioni.
Il ruolo dell’Europa
Anzi, l’Europa ha soltanto rappresentato un elemento di disturbo e di disagio – una vera zavorra, come affermò Obama stesso mesi fa – per la politica democratica americana.
La quale ultima quindi ha finito per attorcigliarsi nelle proprie tradizionali contraddizioni – al crocevia fra interesse nazionale, pretese delle grandi società di capitali, e idealismo democratico.
In Libia e in Siria, dove Obama ha collezionato due grossissimi scacchi, egli è stato trascinato dalla Clinton sua ex ministro degli esteri, e dalla goffaggine nonché dalla irresponsabilità di francesi e inglesi.
Nel mentre l’Ue precipitava nella crisi, rifiutando di allinearsi alle politiche keynesiane e socialisteggianti di Obama, alcuni suoi elementi hanno finito per trascinare gli Usa in avventure neocoloniali fallimentari dall’inizio alla fine – dalla concezione alla conclusione.
La destabilizzazione in Libia e i minacciati interventi in Siria.
In questo “varco”, si è saputo inserire col suo decisionismo Putin, l’ex spia del Kgb.
Uomo d’azione, più che di pensiero.
Diventando l’uomo più potente del mondo, in grado addirittura d’interferire con la politica americana ai massimi livelli – l’opposto di quanto era sempre capitato.
Ora, il modello per cui il potere si fonda in primis sulla forza, sulla forza bruta, e sul decisionismo, è diventato egemone : e un personaggio che ha tutta l’aria di scimmiottare questa modalità retorica, come Trump, è riuscito ad issarsi sino al posto di Obama.
Altro che soft power !
Le contraddizioni di Obama
Il punto è questo: una volta trascinato nella palude mediorientale – da cui aveva cercato di sganciarsi, per distinguersi da Bush jr. – Obama in quella palude è affondato.
Si è anzi proprio lasciato affondare.
Nel 2009, Obama al Cairo pronunciò un famoso discorso che sicuramente, per vie diverse e traverse, contribuì alla nascita delle “Primavere arabe”.
L’affermazione della democrazia non è certo cosa lineare (non lo è mai stata, nenache nella sua culla di origine).
Ma Obama non diede adeguato sostegno a quella grande esperienza, contribuendo a farle fallire – e sfociare in regimi dittatoriali analoghi ai precedenti, come nell’Egitto di Al-Sisi.
Poi, la lotta si focalizzò nella Siria di Assad : e Obama dichiarò che se egli avesse superato la “linea rossa”, ovvero l’uso di armi di distruzione di massa come i gas, nel corso della locale guerra civile, l’America l’avrebbe punito.
Poi in sostanza, Putin minacciò di reagire con altrettanta forza, a difesa del suo vassallo, e Obama indietreggiò.
Nessuno avrebbe potuto gioire, in caso fosse scoppiato un conflitto potenzialmente globale.
Ma quel fatto, quelle esitazioni, rappresentano la spia di una generale e profonda sfiducia nelle ragioni non negoziabili della democrazia – e tanto della capacità quanto della sincerità da parte dello stesso Occidente di farle valere.
L’Occidente obamiano non ha creduto nei suoi tradizionali ideali, nella loro intrinseca bontà – o non ha creduto nella propria sincerità e genuinità nel momento di proporli.
Come se avesse riconosciuto di non esserne ormai più all’altezza.
Una società configurata secondo il sistema capitalistico e del profitto, non può più rivendicare la bandiera dei diritti umani universali : ecco il fatto.
La bandiera della democrazia e dei diritti umani
Però il fatto è che la democrazia non è solo un sistema di amministrazione come un altro: non è una tecnica.
Non ci può essere, al fondo, un modello di governance 2.0 che soppianti la democrazia. Da intendere, quindi, come un sistema ormai superato – o comunque applicabile solo in certi specifiche situazioni.
La democrazia è tanto strumento, quanto fine ultimo, e quindi ideale.
Non si può esportare – ma neanche contrabbandare, o barattare.
E soprattutto, la democrazia si lega a una concezione della dignità intrinseca di ogni essere umano: aldilà della storia e delle culture.
Non contro le differenze culturali, ma neanche al di sotto di esse.
E’ un progetto di civiltà.
Un progetto per una civiltà globale, e quindi in definitiva universale.
Non può accettare frontiere, né tollerare senza sofferenza che altri popoli, o individui, non ne possano godere.
Il caso Regeni
In Egitto, il nostro ricercatore Giulio Regeni è stato martirizzato – perché si occupava di diritti dei lavoratori.
Come la madre, chiedendo giustizia, ha sostenuto: prima di Regeni, migliaia di altri misconosciuti egiziani hanno subito la stessa sorte.
La lotta per l’ideale democratico non ammette frontiere, salvo concludersi nel ripiegamento e quindi in una sconfitta. Nella messa in pericolo di questi ideali anche ” a casa sua”.
In Siria, Obama ha sconfessato la Clinton e non ha armato i ribelli laici della regione: per paura che essi, deboli e divisi, avrebbero finito per farsi sottrarre quelle armi proprio dai fanatici fondamentalisti.
Il risultato, dal 2013, è che sia Putin con Assad, che l’Isis (nemico sia di Assad che di Obama) hanno visto una grande espansione.
E le democrazie sono ormai all’angolo e in ritirata persino in Occidente – incalzate da paura del terrorismo e precarietà socioeconomica, oltre al resto.
La precarietà culturale è conseguenza ma anche concausa di questa crisi.
Rovesciamento della politica americana tradizionale
La catastrofe degli anni 2000, sinora, è stata che gli ideali della diffusione della democrazia sono stati accaparrati e usurpati dai repubblicani con Bush e i suoi.
Che quindi la democrazia è diventata lo specchietto per le allodole di una nuova forma di colonialismo e di sfruttamento planetario.
Un embrione di neofascismo.
Col paradosso che il nucleo dei teocon era costituito da ex attivisti trockjisti, che hanno riconvertito il messianismo profetico per trasformarlo nella copertura morale della nuovo orientamento populista e conservatore : la strada scelta negli anni 60 dai repubblicani per recuperare terreno nei confronti dei democratici e della Nuova frontiera.
Mentre invece, nella tradizione americana, i repubblicani sono sempre stati realisti per non dire cinici, pragmatici e propensi alla trattativi anche con le dittature – anche con la finalità di fiaccarle ed abbatterle nel più lungo periodo (ancora con Nixon e Bush sr. questo indirizzo si è manifestato chiaramente).
Sono stati invece i democratici, è stata la sinistra, a propugnare da sempre l’internazionalismo – socialista, comunista, o democratico.
Thomas Jefferson, il fondatore della sinistra americana, sosteneva che affinché la fiamma della democrazia potesse ardere in ogni angolo del pianeta, valeva la pena di appiccare qualche incendio qua e là.
Queste sono frasi che oggi riteniamo certo molto discutibili, se non inaccettabili.
Ma l’opposto rischia di essere solo la stasi. E dopo la stasi, il collasso. Oppure, un rilancio delle idee e parole guida della Destra.
Obama insomma, in politica estera, ha fatto lo stesso errore che negli interni.
Obama, uomo di pensiero e non d’azione
E’ un uomo di pensiero, più che d’azione.
Egli è un intellettuale, che riteneva come attraverso la cultura, l’informazione il dialogo, si potesse perseguire un compromesso avanzato, superando resistenze preconcette e ideologiche – se non fanatiche.
Dal 2010, persa la maggioranza congressuale, a seguendo della avanzata dei Tea Party, ha dovuto invece sempre remare controcorrente, senza trovare quasi mai punti di incontro coi repubblicani.
E anzi ha visto crescere la violenza razziale nelle strade, e l’ascesa di Trump.
Il dialogo ha fallito, inevitabilmente, di fronte a quella che non è neppure una ideologia – è una forma di fanatismo.
Obama: il coraggio chi non ce l’ha, se lo può dare
Dispiace che quindi un certo coraggio, la capacità di basarsi anche su una certa fede o se preferite sull’ottimismo della volontà, lo abbia portato solo in questa fase a certi gesti tardivi.
Gesti come il rinnovato blocco delle trivellazioni, o dell’astensione all’Onu sulla mozione di condanna degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, e altri simili.
Dispiace che dove non arrivò il coraggio, e dove non poté giungere la ragione, arrvi tardivamente un malcelato dispetto.
Forse, un po’ di questa burbanza, e di questa spacconaggine, molto “kennedyana”, Obama avrebbe potuto metterla in campo ben prima – prima di diventare la proverbiale “anatra zoppa”.
Il fatto è che il dialogo deve mantenere dei punti fermi, perché la stessa fede nel dialogo fa parte di una ideologia: l’ideale democratico-liberale, il quale riconosce che lo stesso dialogo non può condurre sino a mettere in dubbio gli stessi fondamenti che stanno al base del confronto democratico.
Cioè che la democrazia non è un valore negoziabile.
Magari è una utopia , un orizzonte irraggiungibile e mobile : ma verso cui bisogna sempre procedere senza timore.
Anche perché dall’altra parte, sempre una diversa e contraria ideologia, si finisce per trovare.
Un’altra cultura – o magari una “incultura” come il trumpismo parrebbe.
Viviamo anni interessanti, altro che fine della storia
Perché la storia non è finita.
La democrazia deve continuare a confrontarsi con vecchi e nuovi sistemi culturali, agguerriti e non subalterni.
Se si perde la fede nel progresso, e nel valore intrinseco degli ideali democratici, semplicemente valori contrari prenderanno spazio e il posto di quelli in auge fino ad oggi.
L’equilibrio precario, a ben vedere, è una illusione.
Non esistono, nella storia, equilibri stazionari – forse esistono equilibri dinamici.
E la tragedia del bushismo non deve portarci a buttare il bambino con tutta quell’acqua sporca.
Insomma, la democrazia deve sempre muoversi in avanti: non può ridursi alla stagnazione pura e semplice.
Altrimenti, non solo egiziani , siriani ecc. dovranno fare a meno dei beni della democrazia : ma anche qui in Occidente rischieremo di dovervi rinunciare – e magari, ci sarà un giorno in cui saremo noi a scegliere “consapevolmente” di rinunciarvi, il che sarebbe la realtà più tragica.
ALESSIO ESPOSITO