Karol Maciej Szymanowski (1882-1937) è stato un artista polacco che ha profuso la sua arte nella composizione. Interprete e pioniere al medesimo tempo del sentire di fin de siècle, ha illuminato il panorama stilistico con la sua musica, in particolare con i suoi preludi pianistici, intensi e fluttuanti.
Una poetica contradditoria ove ogni singola nota sgorga senza pudore e “solca” lo spartito senza timore, ma con la profonda consapevolezza di un’ineluttabile convivenza con la sofferenza. Una presa di coscienza lucida del sopravvento del suo inconscio “insano” che degenera e si scompone in frammenti vitali e surreali.
Nove preludi come nove stadi d’animo che trascinano e trascendono il dolore. Dal preludio n.1 ove la sua acredine iniziale si addolcisce e si acquieta, ma mantiene dure le dissonanze e le sublima rallentando il ritmo e soffocando “il suono”. La speranza con un retrogusto amaro colma il secondo preludio, lasciando libero il suo estro emotivo che quasi si convince di un possibilismo.
E tutto il registro delle note immaginifiche di Chopin echeggia nel terzo preludio, piccoli raggi di sole illuminano l’iter musicale, per poi essere messi in discussione dalle sonorità “simboliste” e innovative di Debussy che contaminano in modo sublime il quarto preludio.
La veemenza della sofferenza raggiunge l’apice nell’incedere delle scale gravi e tormentate del quinto preludio che esorta all’ascolto e all’aiuto. La discrezione e la “timidità” abbassano i toni nel sesto preludio e come un ossimoro di dolcezza/acredine la musica si abbandona a sé stessa, inconsapevolmente e consciamente allo stesso tempo, e profonde fino all’ultimo preludio sublimando la sofferenza in estasi.
La “policromia cangiante” sorregge le sue opere e commuta lo spirito romantico in “pennellate impressioniste”, alternando il lirismo a quella sottile “incomprensibilità” che permea lo spirito simbolista. Un ibrido che segna il passaggio al sentire novecentesco moderno e lo plasma con uno spirito personale, visionario, intimista.
La scelta di parlare solo degli studi di questo artista eccelso, nonostante le sue altre opere ben più definite, è dovuta al significato essenziale che ricopre proprio questo aspetto nell’”etica” artistica, secondo la mia opinione. Il lavorio e la fatica che si sentono provenire dagli studi costituiscono la fase più alta del processo creativo, emotivo, “originale” (nel senso etimologico del termine). L’urto con il proprio individualismo e la lotta con sé stessi.
Costanza Marana