Film reali
Arrivati quasi al termine di questo 2016, un’altra classifica va fatta e, questa settimana, tocca ai film.
È stato un anno molto variegato e durante il quale è stata recuperata tanta attenzione nei confronti della commedia umana.
Emozioni e dettagli relazioni sono stati gli elementi più ripercorsi all’interno dei film di maggior rilievo. Si è ripartiti in un certo qual modo dall’io, cercando di mostrarne le varie sfaccettature.
E tutto questo non è un caso. Perché la fantasia immersa in un eccessivo surrealismo, delle volte, ha la necessità di recuperare quel senso del possibile che ci riporta alla realtà. E all’umanità.
Per poi ripartire, salpando per nuovi porti.
Ora, tuttavia, non rimane che iniziare a parlare dei fantastici 10, quei film che abbiamo scelto quali, se non migliori, sicuramente più rappresentativi di questo 2016.
La classifica
È solo la fine del mondo, Xavier Dolan
È solo la fine del mondo è probabilmente il film più bello di questo 2016.
Il 27enne Xavier Dolan, che si afferma definitivamente, pur avendone già dato prova negli anni precedenti, sin dal suo esordio agli albori dei 20 anni, quale genio creativo.
Il talento canadese presenta un film che parla di emozioni a 360 gradi e lo fa senza banalità.
Ha sorpreso e continua a farlo, perché oltre a commemorare quel cinema di Truffaut, Bresson, Bergman, Jean-Luc Godard, oltre a recuperare la pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce con l’ultimo lavoro, nonostante la sua giovane età, Xavier dimostra di saper fare ogni cosa alla perfezione.
Presenta la commedia umana di una claustrofobica relazione familiare, conflittuale, talvolta distruttiva, sullo sfondo di un ritorno a casa, dando vita a un dramma piccolo borghese che tiene incollati allo schermo fino alla fine.
È cinema d’autore ed è cinema per tutti, grazie in particolare alle colonne sonore scelte. Un film perfetto, oserei dire.
American Pastoral, Ewan McGregor
Appena ho saputo dell’uscita di un film tratto dall’omonimo del Pulitzer Philip Roth, devo ammettere essere stata presa da una vena di curiosità.
E questo non solo perché si è osato portare sul grande schermo un romanzo perfetto, straordinario. In particolare perché ero curiosa di sapere chi avesse voluto farlo.
A tal proposito, prima di dire qualsiasi cosa sul film, un piccolo elogio a McGregor, regista e attore protagonista del film, è d’obbligo.
Scegliere di fare un film su Pastorale Americana, titolo italiano del romanzo, è coraggioso.
Parliamo di uno dei romanzi del secolo, la cui strutturazione e parola sarà impossibile riprodurre in via audiovisiva.
Si tratta di emozioni non trasfigurabili e la critica ne avrebbe dovuto a più riprese tener conto.
Per cui, da lettrice di Roth, in controtendenza rispetto a quanto la critica ha affermato, credo American Pastoral sia tra i film più riusciti, e non soltanto perché obiettivamente tra i migliori realizzati, ma in particolare per quel tentativo di fare un’impresa che nessuno prima aveva osato prendersi la responsabilità di portare al termine.
La grande scommessa, Adam McKay
Andando a ritroso all’inizio del 2016, con a pompare nelle cuffie i Led Zeppelin e la loro When the Levee Breaks, presentiamo uno dei film indiscussi dell’anno.
Adam McKay decide di raccontare molto seriamente la grande crisi delle banche d’investimento americane degli ultimi anni.
Affronta un disastro economico e lo fa usando una storia vera, attraverso la bocca di chi ne aveva capito la gravità ben prima che tutto accadesse realmente.
Lo fa spiegando, perché non ha la presunzione di voler rendere questo film per una nicchia. È per tutti e trova il modo di spiegare ogni singolo dettaglio che contribuì alla tragedia finanziaria a chiunque.
Rende un film altrimenti noioso, interrompendo continuamente la narrazione e saltando di intervento in intervento dei protagonisti, appassionante.
Premiato con l’Oscar alla miglior sceneggiatura non originale, indubbiamente merita una posizione di rilievo tra i migliori 10 film.
The Hateful Eight, Quentin Tarantino
Quando Tarantino si mette dietro una cinepresa, difficilmente fa cilecca.
Descrivere questo film, retto dalla magistrale musica di Ennio Morricone, in poche righe è letteralmente impossibile.
Basti sapere che in quella parabola di 8 film del genio Quentin, nella sua pellicola 70 mm, nella grandiosità della fotografia, ci troviamo di fronte ad un omaggio al cinema.
The Hateful Eight non è un western. Parliamo di un film che su uno sfondo western, è a tratti un thriller, ma anche un horror d’autore.
E Quentin abbina alla ricerca dell’assassino di richiamo hitchcockiano, la
celebrazione della storia del western, con un rifacimento strano a tratti de “Il buono, il brutto” e la cattiva.
Scandalizza Quentin. E non ha paura di farlo, con scene di estrema durezza e, tuttavia, attimi di quasi poesia, che si perdono nella voce di Jennifer Jason Leigh, una chitarra e Jim Jones At Botany Bay.
Fuocoammare, Gianfranco Rosi
Nell’introduzione alla classifica, mentre parlavo di film che affrontano la commedia umana in variegati modi, tra gli esempi chiari in testa, Fuocoammare è presente.
Fuocoammare non è un film semplice, non è un film per tutti, non è un film per pochi. E quando parlo di recuperare quel senso del possibile che ci riporta alla realtà mi riferisco proprio a questo film.
La messa a fuoco di una tragedia dei nostri giorni, di fronte al quale tanti sembrano aver perso l’umanità capace di coglierne il senso. Gianfranco Rosi racconta quasi se questo, anzi, se questi sono uomini.
“A Lampedusa, sull’isola teatro degli sbarchi di immigrati provenienti dai teatri di guerra dell’Africa e del Medio Oriente, la gente conduce una vita tranquilla e normale, testimone a volte passivo, a volte partecipe degli sbarchi. Gianfranco Rosi osserva, racconta, guarda, filma anche l’infilmabile, provando a raccontare in un’ottica soggettiva e insieme distante una delle grandi tragedie della storia contemporanea.”
Cafè Society, Woody Allen
Ammettiamolo, Woody Allen non è stato esattamente magistrale in questo film, a tratti imperfetto, per lo meno messo a confronto con altri suoi lavori degli ultimi anni.
Tuttavia ha la fortuna di essere semplicemente Woody, e star sempre un passo davanti agli altri.
Cafè Society non è altro che il racconto della vita quale messa in scena tragicomica, dove il pathos non manca, e la cognizione di quel dolore ha il contrappeso di uno humor ripescato qua e là.
“La vita è una commedia”, dice Bobby, figlio della sorella del potente agente Phil Stern, “ma del genere scritto da un comico sadico.”
E in fondo quel che continuiamo a cogliere nei film di Woody Allen è proprio questo, la risata amara di chi non vuol rinunciare al piacere del sorriso.
Veloce come il vento, Matteo Rovere
A chi ha sempre criticato i film italiani, ho voluto rispondere che ai virtuosismi americani, l’Italia preferisce dei racconti che sanno far emozionare.
Questo molto banalmente perché per raccontare delle emozioni, e per farle vivere alla platea, bisogna conoscerle e avere qualcosa in più di un buon budget e fior fiore di strumentazione.
Veloce come il vento, in questi termini, è un capolavoro a cui non manca nulla. Vi è la storia, il dramma, le musiche, perfette e capaci di reggere tutto l’apparato emotivo del film.
Un film con qualcosa da dire, sorretto dalla sempre straordinaria e sopra le righe recitazione di Stefano Accorsi, che ad ogni ruolo interpretato, dimostra sempre di essere un attore grandioso.
Ispirato alla vicenda di Carlo Capone, ex pilota nato nel 1957 e che nel 1984 vinse il Campionato Europeo Rally con una Lancia Rally 037, scivolato nel tunnel della dipendenza ed oggi ricoverato presso una struttura psichiatrica del Piemonte, la pellicola è quanto di più autentico e schietto ci si potesse aspettare.
Celebrativa come Happy Winter degli FM Belfast, tra le colonne sonore del film tra l’altro, conserva una carica di emozioni pronte a esplodere nel cuore di chiunque la veda.
La ragazza del treno, Tate Taylor
Torniamo a un discorso fatto per American Pastoral. Anche La ragazza del treno ha la sfortuna di essere tratto da un libro di grande successo, certo non lo stesso di Pastorale Americana, ma tuttavia sempre una brutta palla al piede da trascinarsi dietro.
A costo di sembrar ripetitiva, credo che per quanto sia banale, un film non sarà mai all’altezza del libro da cui deriva, se non in rari casi. Di certo un capolavoro letterario no.
Assodato questo punto, sarebbe bene soffermarsi sul film dì per sé. Ad esempio considerando che, tratto dal “caso editoriale del 2015”, parliamo del “film più visto di ottobre negli Stati Uniti, e nel mondo ha già incassato oltre 125 milioni di dollari”.
Un dramma femminile, che pur non conservando la stessa intensità sprigionata dal libro scritto da Paula Hawkins, da una più che buona prova cinematografica.
TSCHICK, Goodbye Berlin, Fatih Akin
Tratto dall’omonimo romanzo di Wolfgang Herrndorf – si, ancora una pellicola tratta da un romanzo – Goodbye Berlin è un film genuino, semplice e per questo bello.
Sembra in alcuni istanti un film di Wes Anderson, eppure il regista è un sorprendente Fatih Akin, già premiato presso il Festival di Berlino e l’European Film Awards.
Akin affronta con Goodbye Berlin il tema della vita come viaggio, un tema preso e ripreso quest’anno, anche nello straordinario Questi giorni, di Giuseppe Piccioni.
L’avventura estiva di Maik e Tschick ricostruita in un bizzarro, colorato di notevole humor, road movie, è un viaggio al termine di una consapevolezza.
La consapevolezza canaglia che causerà non poche nostalgie per quei 15 anni pieni di spensieratezza e libertà.
Uno stato d’animo da vivere una sola volta. Ma al termine del quale capire l’importanza del coraggio.
Paterson, Jim Jarmusch
Fresca di visione, mi dedico ora all’ultimo film. Per inserirlo ho chiamato fuori il già scelto Anesthesia, convinta che meritasse decisamente di più questo posto.
Ebbene Paterson dello straordinario regista indipendente Jim Jarmusch, non è un film. È poesia, pura poesia.
Si ambienta nella cittadina di Paterson e protagonista è Paterson, autista di pullman, che conduce
un’esistenza tranquilla, nel bel mezzo di oggetti che appartengono a un altro tempo, e con dei quaderni in cui scrive poesie.
Delle poesie che condivide con premura e semplicità.
Non è un film esagerato, né tanto meno vi sono all’interno dei colpi di scena. È un film dalla semplicità disarmante. Eppure bellissimo, così com’è.
È un film che si sintetizza nella figura di Paterson, e di quella omonima cittadina, la cui spontaneità figlia di un’altra epoca, mostra la sensibilità e l’intimità della poesia, dell’umanità.
In un mondo tutto stucco e niente arrosto, Jim Jarmusch ci fa innamorare del pudore, delle cose banali e non così ovvie, dell’autenticità che non deve far vergognare, mai.
Il quadro incontaminato di un’esistenza molto più romantica e sentimentale di quanto si possa credere.
Di Ilaria Piromalli