Provincialismo ed emarginazione due bombe pronte ad esplodere
Erroneamente si tende a credere che nella vita si può solo migliorare. Tale illusoria e diffusa convinzione può facilmente generare mostri; e molti sono i fattori che possono far regredire e stagnare una crescita. Uno di questi è il provincialismo.
Per meglio intenderci il provincialismo non è affatto una caratteristica esclusiva del “provinciale”, possono esistere provincialismi nelle metropoli, perché come scriveva Pittigrilli, “il provincialismo non è nella geografia ma nell’anima.”
Dunque, se una dogmatica e ottusa chiusura dei nostri orizzonti è in agguato ovunque figuriamoci quanti limiti al nostro sguardo possiamo “trovare” concentrati in questa enorme provincia che ci ostiniamo a chiamare Italia.
Il nostro Paese è frammentato da sempre; sia per ragioni storiche che per radicalizzazioni meramente alimentate dal pregiudizio. L’altro da noi, col quale siamo spesso gomito a gomito, è già segnato da una immotivata quanto ereditata “diversità”. Qui non parlo di razzismo, né dell’altro come straniero, ma proprio del nostro vicino.
Passo ad un esempio pratico. Basta fare un giro nelle miriadi di realtà degli hinterland delle nostre città e ne possiamo vedere e ascoltare di tutti i colori. Spesso tra atomici paesini delimitati da una strada si crede di appartenere a realtà totalmente diverse, e, al di là di quella via c’è sempre concentrato il peggio del peggio.
Per non parlare delle realtà polverizzate negli anni 60’ dall’abuso edilizio. Queste zone, ho in mente ad esempio le zone Vesuviane o quelle dell’Agro che conosco meglio, negli anni si sono sempre più ferocemente unite grazie al cemento fino a rendere quasi impossibile riconoscerne i confini; eppure, nella memoria dei loro abitanti, resta incrollabile una differenziazione netta e quasi sempre vicendevolmente denigratoria. Un comune confina da un altro casomai solo grazie alla parete del palazzo di fronte, ma dietro a quel mostro a 9 piani – innalzato casomai dalla stesso costruttore che ha edificato il “nostro” di mostro – c’è l’assolutamente altro, e, quasi sempre, questo altro concentra in sé tutto “il male”!
Ebbene, in questi casi, siamo di fronte a un provincialismo di risulta. Casomai fino agli anni 50’ era anche comprensibile: le diverse identità territoriali erano non solo riconoscibili, ma addirittura competevano in modo civile, attraverso un simpatico e acceso campanilismo, ma adesso le nuove generazioni, ancora più esasperate da un’orografia bulimica e irriconoscibile, non solo hanno ereditato da quelle che le hanno precedute un senso di identità oramai dissolto, ma lo hanno ancor più radicalizzato.
Un terrificante mare di cemento che ha cancellato i confini è riuscito a isolare gli animi e a chiudere i pensieri. Ciò che doveva sciogliere, con uniforme e grigia ferocia edilizia, il provincialismo ha invece “cementato” ancor più i limiti. Non siamo davanti a un paradosso, anzi è comprensibilissimo: quello che non posso più riconoscere come altro in modo spaziale – come luogo ben definito – lo devo comunque “delimitare” per riconoscermi e lo faccio attraverso l’esasperazione del pregiudizio ereditato dai padri.
Il provincialismo si spinge anche oltre: tra le zone e i quartieri delle stessa città, dalla segregazione “sociale” operata negli anni dal popolamento delle periferie, ma tutte queste differenziazioni hanno sempre lo stesso comun denominatore: il brutto, il peggio, non è mai dove siamo noi, ma dove stanno gli altri. Anche chi vive nelle zone più degradate e insalubri vede il nemico nelle zone ricche e “bene” che gli sono negate.
Mai come oggi i film di Pasolini sarebbero modernissimi. In quei casi, però, la violenza e il degrado erano “intimi”, lo straordinario artista tentava di cogliere la bellezza nel fango di Baudelaire, lo sguardo era quello di un poeta; ma oggi nessun poeta si è assunto questo impegno.
Ora è la sovraesposizione del degrado ad essere il pane quotidiano di un provincialismo galoppante e sempre più imborghesito: l’altro, il disperato, l’ignorante, il violento ci è nemico assoluto, più che riconoscerlo lo “ingabbiamo” in una monolitica alterità da circoscrivere e negare, casomai da raccontare attraverso fiction mediocri che non fanno altro che generare ancor più distanza. Il loro capzioso compito non consiste nel voler comprendere e rappresentare il degrado, bensì in un voler “identificare il mostruoso” e delimitarlo come l’altro da noi.
Questa non è semplice “distrazione”, né una disattenzione “sociale”, ma una volontaria “negazione” da parte di un interessato provincialismo borghese che si è assunto il pericoloso scopo di “ghettizzare” socialmente e culturalmente tutte le topografie del degrado, ogni manifestazione della “differenza sociale”.
Il gioco che si sta facendo è estremamente pericoloso ma, come sempre, gli interessi di pochi non ci fanno cogliere nel presente tale pericolo. Nessuno si sta rendendo conto che attraverso questa “negatoria e interessata spaccatura” sta prendendo vita un paese nel paese. Una sempre più numerosa comunità di persone continua ad esser lasciata a se stessa e sia le istituzioni che la – tutt’altro che illuminata – comunità intellettuale non riescono a comprendere che si approssima sempre più un inevitabile e parossistico punto di rottura, oltre il quale ci ritroveremo a dover attraversare la peggior crisi sociale dal dopoguerra. Strano, siamo provinciali da sempre, eppure adesso neghiamo l’alterità per non affrontarla, forse, quando inizierà a bussare con rancorosa veemenza alle porte delle nostre illusorie certezze inizieremo a capire, ma sarà comunque troppo tardi.
fonte immagine IlSussidiario.net
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