Non ho alcun dubbio che Lady Macbeth lascerà un segno, probabilmente indelebile, al 34esimo Torino Film Festival.
Io dal canto mio non ho esitato a votare la pellicola, non appena uscita dalla sala, occhi ancora persi in quell’Inghilterra ottocentesca, cuore impazzito nel petto, gambe tremanti.
“Le cose senza rimedio non meritano attenzione: ciò che è fatto è fatto”. Lady Macbeth.
Non è di certo una figura nuova, quella ragazzina che rompe il silenzio dello schermo, aprendo le porte al film, di profilo, con il capo velato, nel momento solenne dello sposalizio.
Non è di certo un matrimonio combinato tra un uomo dell’alta società e una poco più che bambina, a turbare i nostri animi.
Lady Macbeth è un personaggio che sa stare al suo posto, riempie lo schermo attraverso i suoi ampi abiti della tradizione ottocentesca, il volto pulito, l’animo puro; come la camicia da notte che si sfila, timidamente, obbedendo agli ordini del marito.
Lady Macbeth, ce ne accorgiamo dopo, ha già visitato la nostra memoria, comparendo qua e la nella letteratura mondiale; era il personaggio malefico di Shakespeare, ma non possiamo crederci che sia la stessa persona, i cui occhi lacrimano ambizione, crudeltà, manipolazione.
L’inquietudine arriva dal mio stomaco, completamente rovesciato a causa degli eventi del film, e giunge al mio sistema cerebrale. Durante le notti, quelle notti in cui il corpo pallido, nudo, inerme della giovane moglie, vittima di un matrimonio combinato insensato e crudele, riempie lo schermo della sua livida ingenuità e nudità d’animo, ingannando lo spettatore. Il turbamento deriva dai doveri matrimoniali mai consumati, dal corpo di una giovane donna, che chiaramente ancora non possiede coscienza di se, in quanto donna, in quanto essere profondamente magnifico e intelligente.
Nulla è mai come ci si aspetta, e la trepidazione, che sovverte ancora una volta il mio stomaco, deriva dalla crudeltà e dalla glaciale freddezza, che discendono dalla stessa purezza, ingenuità e nudità d’animo.
Lady Macbeth è una farfalla che esce dal suo bozzolo: cresce, scioglie i lunghi capelli, colora le sue spente iridi di nuove passioni; corre dietro al vento, esplora il suo essere donna, si disseta, fino a prosciugarsi.
“Nulla si è ottenuto, tutto è sprecato, quando il nostro desiderio è appagato senza gioia” [Lady Macbeth, atto III, scena III].
La pellicola cinematografica è di un’innegabile spessore che non si immagina, che va ben oltre al racconto della classica fiaba, della crudele realtà delle spose bambine. Tratto dal racconto di Nicolaj Leskov, “Lady Macbeth del distretto di Micensk”, la figura di Katherine, una vigorosa e magnetica Florence Pugh, si srotola in un climax raffinato e crudele, che inizia con un’innocente passione per Sebastian, il nuovo stalliere di corte, e va di pari passo con la sua crescita personale, il suo fuoriuscire dal bozzolo innocente e puro, la consapevolezza che guadagna su di se stessa, del suo essere donna, capace di provare sentimenti, emozioni, ossessioni.
La bambina con il capo velato che si consegna al marito, che ci appare come prima schermata all’inizio del film, non esiste più. Al suo posto vi è una donna bella, fiera, sfrontata, fredda, capace di compiere direttamente, o lasciare eseguire, delitti e atti disumani con un’indifferenza disarmante.
“Cosa siamo disposti a fare pur di ottenere un briciolo di amore?” Ma era davvero amore, o semplicemente il risultato falsato di un elettrocardiogramma da sforzo? Quel che crediamo amore, spesso non è altro che una pagina celata delle nostre ossessioni primordiali.
L’inquietudine arriva dal mio stomaco, completamente rovesciato. La verità è che delle volte, il confine tra amore è malattia, è talmente sottile da confondere l’animo umano.
Elisa Bellino