Le utopie sono da sempre esercizi per immaginare un mondo migliore: dai miti antichi alle visioni filosofiche e politiche, l’essere umano ha sempre sperato di realizzare una società giusta. È la sua stessa natura a renderlo impossibile?
Immaginare un mondo migliore
Immaginare una realtà diversa da quella data unisce speranza, creatività e necessità di progresso ed è da sempre parte integrante dell’essere umano. È una pratica che permette al singolo di affrontare le sfide della vita, ma che ha anche accompagnato e modellato la storia della nostra specie, spingendoci continuamente a cercare di costruire un mondo migliore, più giusto e vivibile.
Proiettarsi nel futuro e immaginare scenari alternativi potrebbe aver avuto una funzione evolutiva, permettendoci di pianificare e risolvere problemi, motivandoci a perseverare in situazioni difficili. Percepire una discrepanza tra ciò che è e ciò che potrebbe essere spinge al miglioramento e al cambiamento, ponendo le basi per il progresso.
Questa ricerca di realtà alternative, che abbraccia l’intera collettività, riflette il nostro istinto sociale e la necessità di vivere in comunità equilibrate e giuste. Le stesse religioni incoraggiano l’aspirazione a un mondo migliore, sia esso terreno o ultraterreno. Fin dall’antichità, i nostri miti e racconti hanno narrato di luoghi paradisiaci, offrendo modelli ideali a cui aspirare. Nell’immaginare un mondo diverso, siamo anche spinti a riflettere sulle ingiustizie del nostro e a proporre cambiamenti per avvicinarci a quell’ideale.
Un nome nuovo per una pratica antica
Se questa pratica immaginativa è sempre esistita, è solo nel 1516 che ha trovato un nome grazie a Thomas More, che coniò il termine “utopia” per dare un titolo alla sua celebre opera. More immagina una società ideale basata sul bene comune, sulla cultura, la libertà e l’uguaglianza, contrapponendola all’Inghilterra del suo tempo. L’espediente narrativo di More è funzionale alla critica del mondo reale più che alla progettazione di un mondo migliore, ma il termine è entrato nell’uso comune per indicare un ideale destinato a non realizzarsi, ma di stimolo all’azione politica.
Infatti, l’etimologia greca indica la doppia natura dell’utopia: da una parte è l’unione tra οὐ “non” e τόπος “luogo” ovvero ουτοπία “luogo che non esiste”; ma può essere inteso anche come unione tra εὖ “bene“, “buono” e τόπος “luogo” ovvero εὔτοπος, “luogo migliore”.
Se More non intendeva progettare un mondo migliore, non si può dire lo stesso di tutti gli altri autori che hanno osato immaginare una realtà diversa dalla propria. Platone, nella Repubblica, è stato uno dei primi a costruire un’utopia filosofica e politica ben definita, ma l’idea di una società ideale risale a molte tradizioni antiche. Le storie mitologiche, come quelle del Giardino dell’Eden nella Bibbia o l’Età dell’Oro nei miti greci, immaginano mondi privi di conflitti e sofferenza, dove gli esseri umani vivono in armonia con la natura e tra di loro. In questo caso, non si tratta di luoghi da costruire, ma di tempi ormai perduti in cui regnava la serenità.
Le utopie nei secoli
Il Rinascimento e l’Illuminismo portarono grandi trasformazioni in Europa e un grande ottimismo riguardo alla razionalità umana, alla scienza e alla possibilità di un mondo migliore. Durante il Rinascimento ci fu una riscoperta dei testi e delle idee classiche, che favorì un rinnovato interesse per le possibilità umane, per la ragione e la capacità dell’individuo di cambiare la società.
L’Umanesimo, con la sua enfasi sulla centralità dell’essere umano e sul potenziale della razionalità, alimentò il desiderio di migliorare la società attraverso il sapere e l’educazione, mettendo in discussione le tradizioni sociali, politiche e religiose del Medioevo, caratterizzate da un ordine rigidamente stratificato e dalla forte influenza della Chiesa. L’utopia divenne così uno strumento per immaginare un mondo migliore, più giusto e razionale, liberato dalle vecchie strutture di potere.
I filosofi illuministi come Voltaire, Rousseau e Kant videro nella ragione umana la chiave per liberarsi dall’ignoranza, dalla superstizione e dalle tirannie. L’utopia si legava quindi a una visione progressista, in cui l’umanità poteva costruire una società migliore attraverso l’uso della ragione e della giustizia. Molti pensatori illuministi criticarono le strutture di potere esistenti, come le monarchie assolute e le disuguaglianze sociali, sostenendo che immaginare una società ideale significava anche superare ingiustizie e privilegi ereditari in favore di una nuova organizzazione politica e sociale basata su equità e libertà. A cavallo di questi periodi, videro la luce La Città del Sole di Campanella (1602) e La Nuova Atlantide di Bacon (1627).
Da questo humus filosofico nacque il socialismo e i primi esperimenti pratici per la sua realizzazione. Charles Fourier, filosofo francese, e Robert Owen, sindacalista britannico, ispirarono vari tentativi in America. I grandi spazi occupati dai coloni fuggiti dalle persecuzioni religiose in Europa offrivano la possibilità di sognare un mondo completamente diverso. Esperimenti come Brook Farm a Boston, La Reunion a Dallas e New Harmony a Posey furono tra i primi esempi di socialismo utopico applicato. A sua volta, il marxismo si edificò su queste basi come forte critica all’idealismo astratto del socialismo utopico.
Poi arrivò il ‘900 e le utopie sembrarono svanire. La devastazione e le atrocità delle guerre mondiali, seguite dalla Guerra Fredda, dimostrarono la brutalità dell’umanità, con un impatto profondo sulla visione ottimistica del progresso umano e sulla possibilità di realizzare società ideali. Il comunismo sovietico di Stalin, portando a un regime autoritario con gravi violazioni dei diritti umani, ha definitivamente fatto perdere la fiducia nelle utopie politiche, spostando l’enfasi dall’idealismo al realismo.
Oggi, sembra che a regnare siano lo scetticismo e la disillusione, mentre le uniche utopie immaginabili sembrano quelle legate alla tecnologia. Sopravvivono piccole sacche di resistenza: utopie più piccole e localizzate, visioni più modeste del miglioramento umano, come quelle che promuovono l’inclusione, la sostenibilità e l’equità. Le utopie moderne sono generalmente più pragmatiche e meno idealiste rispetto a quelle del passato; l’idea di una visione utopica globale che giustifichi il cambiamento sociale sembra ormai perduta.
Punti in comune tra utopie
Le utopie, pur variegate nelle loro forme e nei loro contenuti, condividono una serie di elementi comuni che le legano tra loro nel corso dei secoli. Una delle caratteristiche fondamentali è l’idea di una società giusta ed equa, dove le disuguaglianze sociali ed economiche sono eliminate o significativamente ridotte. Questo può manifestarsi in diverse forme, come la distribuzione equa delle risorse, l’abolizione delle classi sociali o la realizzazione di un sistema che garantisca il benessere di tutti.
Spesso, le utopie si fondano sull’idea di progresso, con l’umanità che migliora costantemente dal punto di vista materiale, spirituale o intellettuale. In alcune visioni, l’utopia è un luogo dove la sofferenza, la malattia e la morte sono sconfitte, e gli esseri umani vivono in armonia e felicità duratura.
Molti modelli utopici esplorano forme alternative di governo che si distaccano da quelle tradizionali, prevedendo un governo gestito da una classe dirigente particolarmente virtuosa o illuminata, che guida la società in modo giusto e saggio. Un altro elemento comune nelle utopie è l’importanza dell’educazione. In molte società utopiche, l’educazione è vista come la chiave per formare individui morali, razionali e capaci di vivere in armonia con gli altri, non solo a livello pratico, ma anche come formazione del carattere e promozione della virtù.
La visione di una vita semplice e sostenibile, che rispetta le leggi della natura e vive in simbiosi con essa, è un tema ricorrente in molte utopie. In queste visioni, la società ideale implica un ritorno a uno stato “naturale“, lontano dalla corruzione e dalla complessità delle strutture sociali moderne. Un altro tema comune nelle utopie è il desiderio di libertà per tutti gli individui. L’utopia è spesso descritta come una società in cui gli individui possono perseguire i propri sogni e interessi senza essere limitati da costrizioni esterne, come la povertà, la discriminazione o la repressione politica.
I fallimenti comuni delle utopie
Anche nei fallimenti degli esperimenti utopici si rintracciano ragioni comuni, legate alla natura umana, alla gestione del potere, alla sostenibilità economica, all’adattabilità sociale e alla resistenza al cambiamento. Se le ultime tre cause possono essere considerate problemi organizzativi, le prime due riguardano la natura stessa della specie umana, e sono sempre parse le più difficili da superare. Ogni utopia fallita è crollata sotto il peso dei nostri difetti intrinseci.
Le utopie si fondano sull’assunzione che gli esseri umani possano agire in modo razionale, altruistico e cooperativo. Tuttavia, la natura umana è complessa e include anche impulsi egoistici, avidità e desideri personali che entrano in conflitto con l’ideale di uguaglianza e giustizia. La ricerca del potere personale e la competizione sono difficili da eliminare, e anche nelle utopie che si basano sull’idea di una leadership illuminata, spesso i leader hanno finito per abusare del loro potere per mantenere il controllo e consolidare il loro status. Quindi è la nostra stessa natura a impedirci di costruire un mondo migliore?
Tra il bonobo e lo scimpanzé
Nonostante i nostri sforzi per allontanarci da questa realtà, i nostri parenti più prossimi sono le scimmie. Condividiamo con i bonobo e gli scimpanzé quasi il 99% del nostro DNA, una differenza minore di quella che c’è tra un faggio e una betulla, o tra un cavallo e una zebra. Sebbene queste due specie siano geneticamente molto simili, i loro comportamenti e le loro strutture sociali sono profondamente differenti.
I bonobo sono noti per la loro tendenza alla cooperazione e all’altruismo, hanno una struttura sociale meno rigida e di tipo matriarcale in cui il potere è distribuito più equamente tra i membri del gruppo. Al contrario, gli scimpanzé presentano una struttura più competitiva, gerarchica e patriarcale, dove la lotta per il dominio e il potere è centrale. Nella nostra specie le tendenze alla cooperazione e alla competizione convivono, tirandoci da una parte all’altra senza apparente risoluzione. Come potremmo imparare a essere un po’ meno scimpanzé e un po’ più bonobo?
L’esperimento Universo 25
Credere che basti eliminare le difficoltà materiali per costruire una società migliore potrebbe rivelarsi un’illusione. Un esperimento degli anni ’60 ha dimostrato che, anche in un ambiente privo di minacce e con abbondanza di risorse, il benessere non è affatto garantito. L’esperimento Universo 25, condotto dallo zoologo John B. Calhoun, viene usato (con qualche forzatura) come argomento contro la possibilità di una convivenza pacifica e senza gerarchie.
Calhoun creò un’utopia per topi che, ben presto, sfociò nel sovraffollamento e in anomalie comportamentali. La piccola utopia dei roditori si trasformò in un mondo troppo affollato, con un numero maggiore di topi rispetto ai ruoli sociali disponibili. L’aggressività aumentò, gli accoppiamenti diminuirono, e nonostante l’abbondanza di cibo, molti esemplari si diedero al cannibalismo. I topi, incapaci di stabilire relazioni sociali funzionali, smisero di essere topi e in breve tempo la colonia cessò di esistere. Questa dinamica solleva una domanda: anche gli esseri umani potrebbero non essere in grado di sostenere una condizione ideale di abbondanza e ordine perfetto, senza cadere in problemi sociali e psicologici imprevedibili?
Risolvere il dualismo con l’etica e la cultura
Fino ad oggi, l’idea di un mondo perfetto si è rivelata irrealizzabile e addirittura controproducente. Tuttavia, la natura umana non è completamente da condannare. Se è vero che conviviamo con istinti competitivi e individualisti, è altrettanto vero che abbiamo una spinta innata verso la cooperazione e l’altruismo. Questo dualismo, lungi dall’essere un ostacolo insormontabile, potrebbe invece rappresentare la base per costruire una realtà più equilibrata.
Forse, invece di inseguire un’utopia priva di conflitti o difficoltà, dovremmo concentrarci su come ridurre le ingiustizie, valorizzare le tendenze cooperative e limitare gli impulsi più distruttivi. Se il benessere materiale da solo non è sufficiente a garantire una società armoniosa, allora è necessario un cambiamento culturale ed etico che abbracci la complessità umana. Ciò che conta davvero non è solo come distribuiamo il benessere, ma come strutturiamo le relazioni, le istituzioni e i valori che regolano la nostra convivenza.
Forse, più che un’utopia, ciò di cui abbiamo bisogno è una “protopia“: un costante miglioramento, seppur imperfetto, che unisce il pragmatismo del presente con la speranza del futuro. È attraverso piccoli ma significativi passi che possiamo trasformarci. Solo così potremo sperare di rendere il nostro mondo, se non perfetto, almeno un mondo migliore.