Nel cuore della giungla settentrionale della Guyana, a qualche chilometro dal villaggio di Port Kaituma, si nasconde un luogo che ha segnato una delle pagine più cupe della storia contemporanea: Jonestown. Questo insediamento, nato come utopia comunitaria, è oggi un sito abbandonato, ma il suo nome è legato indissolubilmente a un evento tragico. Il 18 novembre 1978, oltre 900 persone persero la vita in quello che è considerato il più grande suicidio di massa della storia recente. Dopo decenni di abbandono, un piano per trasformare Jonestown in una meta turistica sta prendendo forma, alimentando un acceso dibattito su memoria, etica e commercio.
L’ascesa e la caduta del Tempio del Popolo
Jonestown fu fondato da Jim Jones, un predicatore statunitense che aveva guadagnato notorietà negli anni Sessanta grazie al suo movimento religioso, il Tempio del Popolo. Jones predicava un messaggio di uguaglianza razziale e giustizia sociale, attirando un ampio seguito tra persone emarginate e desiderose di un cambiamento radicale. Tuttavia, dietro la facciata di idealismo, si nascondeva una realtà oscura fatta di manipolazione psicologica, abusi e un culto della personalità che trasformò il Tempio in una setta totalitaria.
Nel 1974, Jim Jones trasferì parte dei suoi seguaci nella Guyana, dove fondò Jonestown, un’enclave isolata che avrebbe dovuto rappresentare il modello perfetto di una società socialista e autarchica. Tuttavia, le condizioni di vita nella comunità si rivelarono rapidamente difficili: carenza di cibo, lavoro estenuante e la costante sorveglianza di Jones crearono un clima di paura e oppressione.
Il massacro del 18 novembre 1978
La tragedia di Jonestown si consumò in una sola giornata, ma le sue radici affondavano nei mesi e negli anni precedenti. Il 17 novembre 1978, il deputato statunitense Leo Ryan si recò a Jonestown per indagare su presunte violazioni dei diritti umani segnalate da ex membri del Tempio del Popolo e dai familiari dei seguaci di Jones. La visita di Ryan, inizialmente cordiale, si trasformò rapidamente in un confronto drammatico. Alcuni residenti chiesero di lasciare la comunità con il deputato, scatenando la reazione violenta di Jones e dei suoi uomini.
Il giorno successivo, mentre Ryan e il suo gruppo si preparavano a lasciare la Guyana, furono attaccati da uomini armati inviati da Jones sulla pista d’atterraggio di Port Kaituma. Ryan e altre quattro persone furono uccisi. Poche ore dopo, Jones ordinò ai suoi seguaci di compiere un “suicidio rivoluzionario”, consumando una bevanda avvelenata con cianuro. Tra le vittime vi erano donne, anziani e oltre 300 bambini. Le immagini dei corpi distesi nel campo fecero il giro del mondo, lasciando un segno indelebile nell’immaginario collettivo.
Decenni di silenzio e abbandono
Dopo la tragedia, Jonestown fu abbandonata, lasciando che la giungla reclamasse gradualmente il terreno. Le baracche di legno, un tempo abitate da centinaia di persone, sono oggi ridotte a rovine invase dalla vegetazione. Nel corso degli anni, il sito è stato visitato sporadicamente da giornalisti, ricercatori e dai familiari delle vittime, ma è rimasto principalmente un luogo di silenzio e dolore.
La Guyana, un Paese in via di sviluppo con risorse limitate, ha evitato di investire nel recupero di Jonestown, considerandolo un capitolo oscuro della sua storia recente. Tuttavia, l’interesse per il sito non è mai venuto meno, alimentato dalla continua attenzione mediatica e dalle opere cinematografiche e letterarie ispirate alla tragedia.
Jonestown come meta turistica: opportunità o sfruttamento?
L’idea di trasformare Jonestown in una meta turistica organizzata ha iniziato a prendere forma da Wanderlust Adventures, un tour operator con sede a Georgetown, che già organizza escursioni nella zona. Le sue proposte sono presentate come un modo per “riflettere sulle scelte e le circostanze che portarono a un evento così tragico”.
Da un lato, i promotori del progetto sostengono che un sito ben curato potrebbe diventare un luogo di memoria e riflessione, simile ad altri luoghi storici segnati da tragedie, come Auschwitz o il Memoriale dell’11 settembre a New York. La creazione di un centro di interpretazione, mostre e tour guidati potrebbe non solo preservare la memoria delle vittime, ma anche contribuire allo sviluppo economico della regione.
D’altro canto, i critici temono che un progetto del genere possa trasformarsi in un’operazione commerciale poco rispettosa della tragedia. Il rischio di spettacolarizzare il dolore è concreto, soprattutto in un’epoca in cui il turismo “dark”, ovvero l’interesse per i luoghi legati a eventi tragici, è in crescita. Le famiglie delle vittime, in particolare, hanno espresso preoccupazioni sul modo in cui la storia di Jonestown potrebbe essere raccontata e percepita.
Il dibattito etico e culturale
La trasformazione di luoghi come Jonestown in mete turistiche solleva questioni complesse legate alla memoria collettiva e all’etica. Come bilanciare la necessità di ricordare con il rischio di banalizzare un evento tragico?