La strategia israeliana volta a favorire l’evacuazione degli abitanti del nord di Gaza verso la parte meridionale, mediante la sottrazione degli aiuti umanitari e la distruzione di infrastrutture fondamentali, conferma l’intenzione di dare seguito al cosiddetto “Piano dei generali” che mira allo spopolamento dell’intera area in vista del reinsediamento israeliano.
Il Piano dei generali
Documenti israeliani classificati recentemente resi noti rivelano la strategia iniziale mirante a ripulire etnicamente la striscia di Gaza mediante l’espulsione di tutti i palestinesi nella penisola del Sinai. Il progetto di trasferimento non ha potuto realizzarsi grazie all’opposizione della resistenza palestinese e alla posizione dell’Egitto contrario ad accogliere i profughi.
Tale progetto non è stato però accantonato, Israele per il momento sta solo concentrando le proprie forze sul nord di Gaza.
Il piano dei generali ideato dall’ex capo del Consiglio per la sicurezza nazionale israeliano, Giora Eiland, che prevede lo spopolamento della parte settentrionale della Striscia, riporta nella memoria dei palestinesi, stremati dai bombardamenti ma anche dalla carestia, lo spettro della Nakba e il terrore di nuove espulsioni di massa come nel 1948, per permettere il reinsediamento coloniale.
Terrorizzare la popolazione del nord con continue minacce di bombardamenti e affamarla impedendo l’accesso dei camion di aiuti umanitari fa parte della strategia attraverso cui il regime israeliano sta cercando di sbarazzarsi dei civili ammassandoli in zone già densamente popolate per poi riaffermare il controllo militare in quell’area.
Pulizie etniche nel nord di Gaza
Anche il quotidiano israeliano Haaretz conferma le espulsioni forzate di massa dalle zone settentrionali della Striscia di Gaza a sud di Jabalya fino al campo profughi di Shati e l’uso della fame come mezzo di pressione per facilitare gli sfollamenti, descrive altresì uno scenario apocalittico segnato dalla devastazione di infrastrutture non collegate ai combattimenti, case ridotte in cumuli di macerie e persone che fuggono via portando con sé i pochi averi che sono riusciti a salvare. Queste immagini rendono sempre più definiti i contorni di un piano che mira all’attuazione di pulizie etniche che ricalcano la tragedia della Nakba del 1948.
Tale prospettiva è confermata anche dalle parole del generale di brigata delle Forze di difesa israeliane che ai giornalisti israeliani ha dichiarato che gli sfollati non potranno mai più fare ritorno nella città di Beit Lahiya e nel campo profughi di Jabalya, l’intenzione è quindi “ripulire” l’intera zona dalla presenza dei palestinesi, ragione per cui l’esercito d’occupazione impedirà l’accesso di aiuti umanitari.
Il taglio delle forniture, la distruzione sistematica delle strutture sanitarie ed educative, dei servizi di emergenza e di tutte le infrastrutture essenziali per la sopravvivenza della popolazione sono perfettamente compatibili con una campagna di pulizie etniche rientrante nel quadro di un progetto genocidiario.
L’estrema destra israeliana
Alla fine di ottobre, i partiti di estrema destra e i rappresentanti delle organizzazioni degli insediamenti in Cisgiordania hanno organizzato un raduno provocatorio a poche centinaia di metri dal confine di Gaza con l’intento di fare pressioni sul governo Netanyahu per rendere il nord di Gaza una zona cuscinetto sotto il controllo militare israeliano in vista di una nuova rioccupazione e del reinsediamento dei coloni.
La leadership del primo ministro è fortemente in bilico per via delle feroci critiche interne che lo accusano non solo per la questione dei prigionieri israeliani ma anche per non aver fatto nulla per prevenire l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, quindi in quest’ottica la realizzazione della strategia politico-militare prevista dal Piano dei generali, di spopolamento della parte settentrionale della Striscia e reinsediamento, rappresenterebbe un importante risultato poiché gli consentirebbe di consolidare il supporto dei coloni d’estrema destra.
L’idea del reinsediamento è diventata parte integrante della politica di Netanyahu, non è solo il proposito ideologico dei tanti coloni estremisti e violenti che dal 2005, da quando Israele decise di disimpegnarsi, si spingono dai loro insediamenti illegali in Cisgiordania fino ai confini di Gaza per organizzare manifestazioni provocatorie al fine di indurre il governo a riprendere il controllo militare.
Non a caso Netanyahu ha recentemente sostituito il ministro della difesa Gallant che aveva mostrato margini di apertura alla possibilità di un cessate il fuoco, seppure in funzione della liberazione degli ostaggi, con il ministro degli esteri Katz, più in linea con i piani della guerra permanente e della rioccupazione del nord di Gaza.
Anche la recente vittoria di Trump come nuovo presidente degli USA, è stata accolta con entusiasmo in Israele, in particolare, dai due principali rappresentanti del suprematismo ebraico, Ben-Gvir e Smotrich, che intravedono nel suo ritorno alla Casa Bianca l’occasione giusta per completare liberamente le pulizie etniche alla luce del sole senza la necessità di dover giustificarsi, come Israele finora ha fatto davanti agli inconsistenti e inutili richiami alla moderazione di Biden.
Il ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir ha dichiarato:
“Se non vogliamo un altro 7 ottobre, dobbiamo tornare a casa e controllare [Gaza]. Dobbiamo trovare un modo legale per farli emigrare volontariamente [i palestinesi]”.
La medesima tesi a sostegno del reinsediamento a Gaza come presupposto per la salvaguardia della sicurezza nazionale è sostenuta anche dal ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich, secondo cui “senza insediamenti non c’è sicurezza”.
Una nuova riconfigurazione geografica
L’obiettivo israeliano di riprendere il controllo nelle aree a nord di Gaza, dopo il disimpegno del 2005 con il ritiro delle installazioni militari e degli insediamenti coloniali, rende necessario un piano di riconfigurazione geografica mirante a spezzare la regione in due enclave completamente scollegate seguendo il modello dei territori occupati in Cisgiordania.
Sebbene le strategie terroristiche dell’esercito d’occupazione, tra minacce di bombardamenti e ordini di evacuazione, rendano un incubo la vita degli abitanti del nord di Gaza, i piani sionisti di spopolamento si sono scontrati con lo spirito indomito di un popolo che ha la resistenza nel DNA, e pur nella consapevolezza dei rischi per la propria vita, la maggioranza ha preso la decisione sofferta di non lasciare la propria terra martoriata, e all’alternativa dell’esodo di massa verso sud attraverso il corridoio sulla Salah al-Din Road, ha preferito cercare luoghi più sicuri nel nord.
Mowaffaq al-Kafarna, professore di scienze politiche all’Università di Gaza ha dichiarato:
“In questo scenario, lo spopolamento della parte settentrionale di Gaza è solo l’inizio, con il processo che potenzialmente si estende alla stessa Gaza City. Israele sembra intenzionato a creare una parte settentrionale di Gaza completamente priva di presenza palestinese, a partire da questa evacuazione come precursore di cambiamenti più ampi”.
Secondo Mowaffaq al-Kafarna attraverso la divisione del nord di Gaza in due sezioni separate e la devastazione di ogni infrastruttura funzionale alla vita civile, Israele mira ad uno spopolamento graduale che via via si estenderà anche al resto della regione, contemporaneamente porta avanti l’intento di riaffermare non solo il controllo militare ma anche il dominio politico neutralizzando la resistenza palestinese e sostituendo Hamas con una nuova amministrazione civile subordinata agli interessi di sicurezza israeliani, escludendo però la partecipazione politica palestinese, in contrasto quindi con la Cisgiordania, dove l’Autorità nazionale palestinese assolve a compiti nell’ambito dell’amministrazione civile.
Il modello Cisgiordania a Gaza?
Se il piano dell’ex ministro della difesa Gallant, caldeggiato dalla comunità internazionale e dagli USA, proponeva la riaffermazione del controllo militare sulla parte settentrionale di Gaza da parte dell’esercito d’occupazione israeliano e la costituzione di un unico governo retto dall’Autorità nazionale palestinese, sia in Cisgiordania che nella Striscia, l’attuale coalizione di maggioranza guidata da Ben Gvir e Smotrich propende invece per una soluzione più drastica che non si accontenta solo del controllo militare permanente ma ambisce ad eliminare il 90% della popolazione palestinese per poter realizzare il completo reinsediamento.
In sostanza Gaza verrebbe nuovamente occupata e reinsediata nonostante nel 2005 Israele si fosse impegnata a rendere definitivo il ritiro.
Tuttavia, bisogna sottolineare come il disimpegno politico e militare non abbia comunque impedito in questi anni la militarizzazione dell’intera area attraverso il controllo sui valichi di frontiera, sullo spazio aereo, sulle acque territoriali e sulle entrate fiscali di Gaza.
La devastazione totale e la costruzione del corridoio Philadelphia, al confine tra Gaza e l’Egitto, e soprattutto del corridoio Netzarim che taglia in due il territorio, hanno la funzione di frammentare e isolare la Striscia di Gaza recidendo tutti i collegamenti con l’esterno in modo tale da rendere possibile la riaffermazione dell’assedio sulla base del modello Cisgiordania.
Tutte le proposte più “moderate” e i piani avanzati a livello internazionale sembrano
rispecchiare le linee guida degli accordi di Oslo, pongono al centro la salvaguardia della sicurezza di Israele e criminalizzando la resistenza dimostrano di
non preoccuparsi minimamente dell’autodeterminazione del popolo palestinese, nella
migliore delle ipotesi, propongono di replicare anche a Gaza il controllo da parte dell’Autorità nazionale palestinese a cui, come in Cisgiordania, verrebbero conferite funzioni limitate in materia amministrativa per quanto riguarda gli affari civili e i servizi base, per il resto, si coordinerebbe con Israele per la repressione di ogni forma di resistenza e attivismo contro l’occupazione. Come già possiamo constatare nei territori occupati in West bank, dietro l’illusione dell’autogoverno palestinese, l’ANP si è rivelata una mera estensione garante del sistema coloniale israeliano che difatti controlla risorse e confini, oltre ad avere carta bianca nell’espansione degli insediamenti.