C’è perdono e perdono. Ci sono ferite che si curano, altre che guariscono, altre che si possono coprire, altre ancora che si possono anestetizzare.
E ci sono colpi di spugna sugli errori e lenti e complicati processi di ricostruzione di se e dei rapporti con gli altri. Perdonare non è una parola, una carezza, un tocco di bacchetta magica.
E se è anche vero che sempre si può perdonare, non sempre ci sono le condizioni.
A conclusione del Giubileo straordinario della Misericordia voluto da Papa Francesco, che ha interrogato tutti, credenti e non credenti, sul valore del perdono e delle sue implicazioni nella vita personale e della società, la prima considerazione che viene da fare è questa: quanto è complicato perdonare! Ovviamente se vogliamo parlare di perdono nel senso più profondo di questa parola, vale a dire l’esito di un percorso di superamento del proprio egoismo teso alla ricostruzione di una relazione, in nome di un bene più grande. Diversamente, sono facili soluzioni assolutorie, colpi di spugna, pietre messe sopra e sotto alle quali continuano tranquillamente a strisciare serpi velenose.
Si sperimentano almeno tre tipi di perdono. Il primo è quello a cui abbiamo fatto riferimento: il colpo di spugna. Indolore, senza alcun processo particolarmente complicato di mortificazione dell’egoismo o di maturitazione interiore, di chi passa sopra le cose come se tutto scorresse come l’acqua del fiume che arriva a mare. Non è perdono: è l’apoteosi dell’indifferenza e dell’affettività ai livelli di elettrocardiogramma piatto. E’ il perdono dei “tiepidi” che, secondo il libro dell’Apocalisse, saranno “vomitati” nell’ultimo giorno. E’ il perdono degli ignavi dei quali non a caso Dante nella Divina Commedia scrive che li sdegna tanto la misericordia quanto la giustizia e “fama di loro il mondo esser non lassa”.
Poi c’è il perdono “radical chic”, tipico di quelli che mostrano di non portare rancore perché fa figo dire che non si ha rancore e che si è anime candide pronte sempre ad amare e perdonare. E’ il perdono di chi fa finta di metterci una pietra sopra, aggiungendo frasi del tipo “trarrò le mie valutazioni per il futuro, mi regolerò per il futuro…”, quasi facendo immaginare che ci sarà sempre una ferita, anche minuscola, che non sanerà mai. Ovviamente chi fa questo ragionamento, è sempre e comunque dalla parte della ragione e l’altro è dalla parte del torto. E’ il perdono dei “radical chic”, di quelli con la spocchia così spocchiosa che non ammettono di nutrire rancore. Una domanda sorge spontanea: che razza di perdono è?
E poi c’è un terzo tipo di perdono. Quello delle anime nobili. Il perdono che nasce dall’unica forza interiore che porta l’uomo a mettere sotto i piedi il proprio egoismo, a percepire che per quanto possa essere profonda la ferita inflitta dall’altro ancora più profondo è il vuoto che l’altro lascerebbe: è la forza dell’amore, dell’agape, del dono di se. Diffidate da chi perdona mettendo una X sull’errore altrui o una linea con la penna. Perdona chi vive il travaglio interiore di riconoscere che senza l’altro, proprio senza l’altro che ti ha deluso, tradito e ingannato, la vita perde un pezzo unico. Senza questo pezzo non riesce a stare. “Si perdona finché si ama”, diceva Rochefoucauld, e la concretezza del perdono è quella follia umanamente parlando di tornare a fare del bene a chi ti ha ferito, come se nulla fosse successo.Convinti o illusi che aggiungendo amore laddove qualcuno ha buttato fango di infamia e di indifferenza, si possa curare e guarire definitivamente la ferita.
Non sappiamo quanto riusciamo farlo e fino a che punto. Magari siamo i primi incapaci di perdonare. Eppure il perdono è questo: sconfitta dell’egoismo da parte di un amore più forte. E’ ricostruzione. E’ dimenticare. Come nel dialogo tra Caino e Abele, immaginato da Borges, in cui uno non sa più chi abbia ucciso l’altro, chi sia la vittima e chi sia il carnefice. E’ tutto dimenticato. “Ora siamo insieme come prima”, dice Abele. Ma è il perdono di anime nobili. Non è un perdono da tutti. Non è un perdono per tutti.