La Guinea, paese dell’Africa occidentale, aspetta per i prossimi giorni l’esito dello storico processo, aperto nel 2022, e riguardante le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza governative nel 2009. I giudici esprimeranno la propria sentenza entro fine luglio e decideranno se condannare gli 11 imputati tra cui spiccano importanti figure di alto rango militare e governativo. La richiesta del pubblico ministero è l’ergastolo per 7 degli imputati e la riqualificazione dei fatti come crimini contro l’umanità. Per gli altri 4 imputati le condanne partono da un minimo di 14 anni.
Il dibattito processuale si è concluso il 26 giugno e gli avvocati della difesa sono stati gli ultimi a intervenire, Jean-Baptiste Jocamey Haba, avvocato dell’ex presidente Dadis Camara, ha chiesto per il suo assistito l’assoluzione, stessa cosa per Maître Lancinet Sylla, avvocato di Toumba Diakité, che al tempo era comandante militare e aiutante di campo di Camara.
L’ex presidente del paese è tra gli imputati dello storico processo e attualmente si trova in esilio in Burkina Faso, altri imputati nel processo sono invece già stati arrestati. Lo scorso anno Camara tornò a Conakry, capitale del paese, affermando di avere fiducia nei tribunali nazionali e di essere pronto ad affrontare la giustizia, tuttavia dopo tali dichiarazioni è poi subito tornato in esilio.
Guinea, cosa successe quel 28 settembre 2009?
Alla fine di settembre 2009 a Conakry una pacifica manifestazione contro la candidatura alla presidenza dell’allora golpista Moussa Dadis Camara, è stata repressa nel sangue con la polizia ed i militari che hanno sparato sulla folla uccidendo più di 150 persone, sono invece più di 100 le donne che in seguito, presso lo stadio nazionale, sono state violentate e stuprate dagli stessi militari. Sempre secondo l’accusa i corpi delle vittime in seguito sono stati fatti sparire dagli obitori e poi sotterrati in grandi fosse comuni.
Già lo stesso anno le indagini resero nota la meticolosa organizzazione e la premeditazione di tale massacro portato avanti dalla «guardia presidenziale» denominata al tempo «i berretti rossi». Durante le ricerche investigative Georgette Gagnon, direttrice all’epoca per l’Africa di Human Rights Watch, affermò che:
«Le forze di sicurezza hanno circondato e bloccato lo stadio, poi hanno fatto irruzione e hanno sparato contro i manifestanti a sangue freddo. Sono stati compiuti macabri stupri di gruppo e omicidi di donne sotto gli occhi dei comandanti.»
Oltre ad una questione politica il massacro sembra avere dietro anche ragioni etniche la grande maggioranza delle vittime apparteneva infatti al gruppo etnico dei Peuhl, in maggioranza musulmani, mentre i comandanti nello stadio e anche i membri politici al potere, tra cui lo stesso presidente, appartengono a gruppi etnici della regione sud-orientale del paese e sono in gran parte cristiani o animisti.
Tale tesi è stata confermata da molti testimoni che hanno sentito gli assassini e gli stupratori fare commenti e offendere le persone di etnia Peuhl accusati di «voler prendere il potere e per questo da punire».
Anche le stesse indagini, iniziate poco dopo il massacro, sono state notevolmente ostacolate e perciò il lavoro è proseguito lentamente e in modo scostante. Lo storico processo in Guinea, fin da subito monitorato e garantito dalla Corte penale internazionale (CPI), è il primo di questo genere nel paese ed il primo che coinvolge violazioni dei diritti umani di questa gravità.
Secondo Amnesty International la situazione in Guinea non è migliorata neanche negli ultimi anni e dal 2019 ad oggi sono stati ripetutamente violati i diritti umani alla riunione pacifica e alla libertà di espressione. Nel rapporto l’organizzazione internazionale scrive:
«Nonostante le promesse questa situazione estremamente grave persiste, in un contesto generale di repressione delle voci dissidenti. Dal 2019 almeno 113 persone sono state uccise e centinaia sono rimaste gravemente ferite.»
A ciò si aggiunge che le cure mediche sono spesso ritardate o assenti e alcuni operatori sanitari si sono anche rifiutati di curare i feriti per paura di ritorsioni da parte delle autorità intente costantemente a sdrammatizzare la repressione.
La sentenza dello storico processo per i fatti del 28 settembre 2009 rappresenta quindi anche una speranza di cambiamento rispetto alla drammatica attuale situazione politica. Per i sopravvissuti al massacro, invece, rappresenta anche la possibilità di ottenere importanti risarcimenti e potersi così permettere delle cure sanitarie che ancora oggi non gli sono possibili anche per motivi economici.