In Cina, la minoranza Uiguri, Uyghur Hjelp, continua ad essere bersaglio di politiche repressive e discriminatorie da parte del governo il quale da anni reprime tale minoranza in varie forme e con modalità anche violente. L’ultimo rapporto di Human Rights Watch a riguardo ha evidenziato come negli anni ad oltre 600 villaggi Uiguri, soprattutto nella regione dello Xinjiang nella Cina occidentale, è stato cambiato il nome originale allo scopo di rimuovere i riferimenti alla cultura locale e promuovere invece l’ideologia del partito comunista al potere nel paese da 75 anni.
Il rapporto di HRW è il frutto della collaborazione con l’organizzazione norvegese Uyghur Hjelp (aiuto per gli Uiguri) che ha studiato i nomi dei villaggi della regione tra il 2009 e il 2023 andando a verificare che degli oltre 3600 cambi di nome effettuati circa un quinto «ha comportato cambiamenti di carattere religioso, culturale o storico».
Tra i nomi sostitutivi più comuni troviamo «Felicità», «Unità» e «Armonia», tutti concetti cari al regime di Pechino e invece totalmente in contrapposizione con la storia culturale ed etnica di quei luoghi abitati in gran parte dalla popolazione Uiguri che parla un dialetto simile all’uzbeko, è turca di provenienza etnica ed è in prevalenza di religione musulmana.
I nomi più sostituiti sono stati proprio quelli di origine religiosa, come «haniqa», tipico edificio religioso sufi, o «baxshi», lo sciamano, e quelli legati alla storia del popolo come i nomi dei vari regni o repubbliche del passato o i nomi dei leader locali.
La repressione della minoranza Uiguri portata avanti dal governo cinese non è una novità di questi giorni, ma è invece stata portata avanti negli anni sotto il profilo religioso, etnico e politico. Si tratta di una campagna di diffusione forzata della cultura cinese che va a discapito delle minoranze tra cui troviamo anche gli Hui, non etnicamente distinti dalla maggioranza dei cinesi, ma anche loro di religione musulmana e abitanti in prevalenza delle regioni di Gansu e Ningxia.
Dal 2016 ad oggi in Cina sono state chiuse migliaia di moschee e in molti villaggi, dove la popolazione è in maggioranza musulmana, è stato lasciato un unico edifico religioso spesso in stile cinese e invece privato di particolari decorazioni o elementi architettonici tradizionalmente musulmani.
La repressione della minoranza Uiguri e l’incubo dei campi di prigionia
La repressione della minoranza Uiguri negli anni ha assunto anche forme molto violente, nel 2018 una inchiesta del New York Times ha scoperto la presenza dei cosiddetti «centri di rieducazione e formazione» dove tutt’oggi sono detenute migliaia di persone, spesso senza una valida ragione, e in maggioranza di religione musulmana o non etnicamente cinesi.
I documenti a riguardo, appartenenti alla polizia cinese della regione dello Xinjiang, nel 2018 sono stati consegnati ad un ricercatore tedesco esperto in materia, Adrian Zenz, che li ha prima verificati e in seguito pubblicati su numerosi giornali internazionali. I dati pubblicati, tra cui oltre 20 mila nomi di persone detenute con annesso numero identificativo e motivo di arresto, riguardano il periodo di tempo dal 2000 al 2018 e persone di ogni età, dai 15 agli 80 anni. Secondo un rapporto ONU pubblicato lo stesso anno la Cina nel corso degli anni avrebbe detenuto in questi campi di prigionia milioni di persone di etnia Uiguri.
Tale inchiesta denominata poi «Xinjiang Police Files» è valsa alla Cina anche un accusa di genocidio da parte degli Stati Uniti durante l’amministrazione Biden. Il rapporto USA è stato pubblicato a fine marzo del 2021 e accusa esplicitamente la Cina:
« di genocidio e crimini contro l’umanità nei confronti della minoranza musulmana degli uiguri».
Il tema della gestione delle minoranze etniche e religiose è centrale nel mondo di oggi e la storia della minoranza Uiguri in Cina è troppo poco conosciuta ed estremamente significativa perché da anni sotto pesante attacco da parte del regime comunista.