Di Otello Marcacci
Si fa presto a dire che occorre essere un buon padre.
Insomma viene fuori che le mie figlie si erano messe in testa di partecipare alla Maratona che si è svolta nella nostra città perché tutti ne parlavano a scuola. Avevano letto di Dorando Petri e poi anche di Gelindo Bordin e di tutti gli altri eroi di un’Italia che corre e che volevano imitarli.
Quando me l’hanno detto mi sono messo a ridere. Fargli capire la stupidità di un pensiero così vacuo è stato semplice. Non ci si improvvisa maratoneti solo perché ci piace l’idea di poterlo essere. Occorrono mesi e mesi di preparazione specifica mirata al raggiungimento di un equilibrio psico-motorio in grado di farti reggere uno sforzo contro natura come quello di correre per quarantadue ca**i di chilometri. Solo gli idioti possono correre così a lungo quando esistono auto confortevoli oppure, se si è poveracci, bus da scroccare a gratis, treni, metropolitane, tandem, tricicli, monopattini.
Loro mi hanno guardato annuendo. Hanno seguito filo filo il ragionamento e hanno concordato. Era una cosa assurda. Quando ho ragione ho ragione, per la miseria.
«Allora si fa la lucchesina che è sicuramente una ca*zata! » mi ha detto la grande (13 anni a febbraio).
Mi è andata di traverso la colazione. E non per il fatto che continua a parlare come una scaricatrice di porto (non capisco il perché dato che io, porc* troi*, non uso mai parolacce) ma perché “la ca*zata” come l’ha chiamato lei è una corsa amatoriale di 10 (leggasi dodici e mezzo perché barano) chilometri. Un happening per festeggiare la città. Una sgambata insomma.
Tutti i miei tentativi di dissuasione occulta sono andati a farsi friggere perché le altre due hanno pensato bene di unirsi alla prima e a nulla sono valsi i tentativi di corruzione basati sulla promessa che, in cambio dell’abiura di un’idea tanto abbietta, avrebbero avuto cinema e partite a bowling a iosa.
Generazione degenere.
Con queste premesse ci siamo presentati ieri sulla linea di partenza assieme a varie migliaia di beoti felici come Pasque di cominciare a sudare e faticare in nome di una vita sana e salubre che dal loro girovita e dalle facce avvinazzate non mi pareva che intendessero in realtà abbandonare. Un po’ come andare in chiesa solo a Natale o Pasqua. Le bimbe erano emozionate come non ricordo di averle mai viste e questo mi ha fatto ignorare le facce schifate di qualche amico che ho incontrato (e con cui in genere insulto gli imbecilli che corrono per il puro gusto di farlo)
«Corri anche tu adesso? » mi ha detto Enrico incrociato al baretto per prendere il caffe con un’espressione che lasciava trapelare lo sconquasso emotivo di vedere l’ultimo baluardo di una vita pigra, oziosa e fanca*zista cadere sotto i colpi delle figlie emotivamente fragili accalappiate dall’idea ridicola di diventare atlete.
«Ti meriti un rasta come genero. »
Mi ha detto prima di andarsene.
E no, ca*zo. Un rasta no.
«Cos’è un rasta babbo? »
«Non ti ci provare sai? »
«Ma a fare che? »
«A sposare un drogatello, spacciatore di droga, cretina non l’hai capito? » fa la grande
Che poi non so bene se sono contento di avere come figlia una che la pensa a questo modo, ma ho evitato di dirglielo. Perché diciamocela bene, sfido chiunque a trovare uno che ambisca a trovare un debosciato come genero.
L’inizio della kermesse è stato veramente esaltante. Sulle mura assieme a tantissimi concittadini e forestieri venuti da chissà dove mi sono sentito bene. Era bello. E ho pensato che i miei pregiudizi sono a volte una cosa di cui devo imparare e liberarmi. Il mio stato di forma decente (gioco comunque a tennis) mi faceva sgambettare come un gallo cedrone in mezzo a quelle migliaia di arti in movimento. Belli, colorati, contagiosi. Forse avrei dovuto ricredermi. Forse i pensieri obliqui che mi avevano corrotto l’anima fino a quel momento erano solo un cancro che avrei dovuto debellare. Correre sulle secolari mura di Lucca, stupende e poi dentro le ville della città aperte per l’occasione un’emozione unica. E mi sono detto che avrei dovuto cambiare vita.
Ma è durato poco.
Perché le cose belle non durano per sempre. Nel mio caso è bastato arrivare al chilometro 5. Anche se lo ammetto al 4 già sentivo i morsi alle gambe. Ma al cinque la crisi. La ca**o di crisi. Tanto più che dalle mura siamo scesi sotto passando da un bellissimo spettacolo pieno di vita a uno che assomigliava a una merd*sissima campestre che tanto odiavo da giovane La gente poi si era sfilacciata e finivi per correre da solo.
«Oh babbo ma ti sbrighi. »
Non c’è niente di più umiliante che vedersi staccare dalle proprie figlie che poi si fermano ad aspettarti. Per evitare che mi vedessero agonizzare gli ho dato il via libera.
«Ci vediamo all’arrivo. »
In realtà speravo che dicessero qualcosa che assomigliasse a: “no papino , stiamo con te tutto il tempo, ti diamo il passo noi.”
Mammeglio.
Quelle hanno alzato il pollice per dire OK e se la sono filata assieme a quelli forti lasciandomi come un bischero in mezzo alla palude.
Si meritano il rasta, le cretine. Altro che.
Al chilometro 7 ho cominciato ad avere le allucinazioni. Mia madre che mi diceva “E io che ti ho fatto anche studiare. Guardati ora. Fai schifo.” Al chilometro 8 ho perso anche la dignità. E’ successo quando sono stato sorpassato da due matrone di settanta anni super ciccione. E no, ca*zarola, ho pensato. Mi sono messo dietro e ho dato il cuore, ma le due cicce basicce mi hanno fatto ciao ciao con la manina e sono sparite all’orizzonte.
Mi veniva da piangere.
Mi sono voltato e ho visto che a cento metri stava arrivando un nonno con la barba bianca che doveva essere il fratello di Matusalemme e gli ultimi due chilometri sono stati un duello rusticano tra noi due. Va bene essere passato da quelli giovani e forti e dai bambini. E pure dalle donnone cicce. Ma da Matusalemme no.
Ho spremuto ogni energia che avevo dentro e ogni cinque metri mi voltavo per vedere a che punto era. Se avessi avuto dietro qualcosa con cui doparmi per tenere a distanza Matusalemme giuro l’avrei presa. Ma quello continua ad avvicinarsi e piu che mi raggiungeva e più che vedevo la sua ghigna felice. Ho tentato la carta dell’allungo. La classica focata. Quella che spari prima di morire. Idea pessima perché mi ha obbligato a cento metri di cammino lento per recuperare e questo è bastato al vecchiaccio per raggiungermi e farmi l’occhiolino.
«Dai che ce la fai anche te. Mettiti in scia. »
Mettiti in scia?
A me?
Ma tu lo sai chi ca*zo sono?
Io sono Otello Marcacci. Io ho scritto di uno che si sarebbe fatto ammazzare prima di mettersi in scia di qualcun altro.
Quelle parole buttate là mi hanno dato una forza incredibile che mi sono sentito di correre come non avevo fatto nemmeno all’inizio, incurante del dolore e del fiato e del fatto che avrei pagato con una settimana di dolori quell’inutile scatto di orgoglio
E sono arrivato, risucchiando persino un paio di sfigati come me (le ciccione no però….)
All’arrivo ho ritrovato le mie figlie che nel frattempo si erano già belle che rifocillate, preso il pacco regalo della corsa e poi infreddolite nell’attesa e che mi hanno accolto con grande entusiasmo:
«Che palle babbo, o quanto c’hai messo? »
«Pochissimo, c’ho messo pochissimo. Adesso però cercate una gru perché da qua non mi sposto più. »