La crisi del lavoro minaccia la stabilità del sistema democratico: i movimenti sovranisti, populisti ed estremisti fanno presa proprio sui malumori dovuti alle incertezze economiche. A queste vanno aggiunte le difficili condizioni di giovani, donne e immigrati, ancora ai margini del mondo del lavoro.
Una festa non solo operaia
Sulla scorta della manifestazione operaia del 1° maggio 1886 a Chicago, fu deciso tre anni dopo dalla Seconda Internazionale che quell’evento e quella data avrebbero rappresentato da allora la lotta per i diritti dei lavoratori. Sono passati 138 anni dagli eventi del maggio di Chicago e oggi questa festa antica ha assunto significati moderni.
A partire dagli ultimi decenni del Novecento è andato viepiù abbassandosi il numero dei lavoratori delle industrie, a vantaggio di quello degli impiegati del terzo settore. Motivo per cui oggi il Primo Maggio non è legato solo all’universo della fabbrica e degli operai, ma è diventato una ricorrenza per denunciare le nuove ingiustizie che caratterizzano il mondo del lavoro: l’eccesiva precarietà, la diminuzione delle tutele, la perdita di sicurezza occupazionale.
La crisi del lavoro significa crisi della democrazia
La povertà assoluta dal 2010 a oggi è più che raddoppiata. Dati ISTAT riportano che le famiglie in povertà assoluta si attestano all’8,5% del totale delle famiglie residenti (erano l’8,3% nel 2022), corrispondenti a circa 5,7 milioni di individui (9,8% rispetto al 9,7% del 2022). L’aumento della povertà è un dato pericolosissimo non solo per le ovvie conseguenze economiche, ma per le ricadute sociali e politiche che minacciano la stabilità stessa del sistema democratico.
Osservando la Storia, infatti, si comprende come l’assenza di lavoro, le basse retribuzioni e l’insicurezza economica abbiano sempre generato un pericoloso malcontento, sul quale hanno soffiato i movimenti populisti ed estremisti. Basti pensare che il nascente movimento fascista, dopo la Prima guerra mondiale, fece presa proprio sul malcontento dovuto alla crisi del settore agricolo e del settore industriale.
In quest’ottica si può intuire che la crisi della nostra democrazia e il diffondersi in Occidente di movimenti reazionari e sovranisti sono fenomeni dovuti anche (o soprattutto) a decenni di politiche e di processi che hanno indebolito il lavoro rendendolo precario attraverso impieghi intermittenti: voucher, part-time forzati, apprendistati ripetuti, lavoratrici e lavoratori costretti a firmare in anticipo dimissioni in bianco, tirocini non pagati, come se l’accesso al mercato del lavoro fosse un favore anziché un diritto.
Ciò fa capire quanto il lavoro sia alla base di una democrazia in salute. Lo dice la nostra Costituzione, antifascista per natura: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” Il lavoro è un ponte tra le parole “democrazia” e “sovranità popolare”. Se crolla questo ponte vacillano sia i principi democratici che reggono la Repubblica, sia la fiducia nelle istituzioni rappresentative: derivano da questo la scarsa partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, la sfiducia verso la politica e lo Stato, la scarsa affluenza alle urne, l’ascesa dei sovranisti.
Oggi i movimenti sovranisti da un lato fanno presa sul malumore diffuso, dovuto alla crisi del lavoro, dall’altro non offrono alcuna soluzione a chi vive ai margini del sistema produttivo: giovani, donne e immigrati che, per diversi motivi, fanno difficoltà a trovare una mansione che risponda alle proprie esigenze, alle proprie attitudini e che garantisca loro non la mera sopravvivenza ma una qualità della vita degna di questo nome.
Le difficoltà dei giovani
Oggi viviamo un paradosso tutto italiano: siamo tra i Paesi meno scolarizzati d’Europa, ma abbiamo un problema estremamente preoccupante di sovraistruzione per la mansione di alcuni lavori. Se, per esempio, oggi un giovane vuole sperare di diventare collaboratore scolastico (un tempo si chiamava bidello) ha bisogno di acquisire -in ordine sparso- il corso di dattilografia, il corso di assistente socio-sanitario, il corso EIPASS per la certificazione internazionale di competenze informatiche e si potrebbe continuare.
Prerequisiti esagerati che escludono migliaia di giovani dal mondo del lavoro. Secondo le stime sono 5,8 milioni le persone “sovraistruite” per la mansione che svolgono. E allo stesso tempo ci sono giovani con due lauree che faticano a trovare occupazione e sono costretti ad accontentarsi di un lavoro sottopagato che non c’entra nulla con ciò che hanno studiato. Non è un caso se in 10 anni si sono trasferiti all’estero 250.000 giovani italiani: secondo alcune stime equivale a una perdita di 16 miliardi di Pil potenziale.
Donne ancora troppo escluse
Altro tasto dolente quando si parla di PIL è la condizione del lavoro femminile. Uno studio ha evidenziato che, se in tutti i paesi si rispettasse la parità di genere negli ambienti lavorativi, il PIL mondiale crescerebbe di 28 trilioni di dollari in 10 anni.
Nonostante ci sia stato un aumento di consapevolezza per quanto riguarda la condizione della donna nel mondo del lavoro, la disoccupazione femminile resta alta: nel contesto europeo il tasso di occupazione femminile medio è del 69,3%, mentre in Italia si attesta solo al 55%.
Ma le donne non affrontano solo la difficoltà a trovare lavoro, le lavoratrici devono scontrarsi con diverse problematiche: il riconoscimento della maternità, la difficoltà a raggiungere posizioni di leadership, la parità salariale, contratti di lavoro precari viziati da pregiudizi e in alcuni casi da misoginia. È preoccupante che nel 2024 solo un terzo delle donne sia riuscito a ottenere un contratto a tempo indeterminato.
Quanto è importante regolarizzare il lavoro degli immigrati
Gli immigrati vengono sfruttati, sottopagati, umiliati, tanto che il fenomeno migratorio sta assumendo i connotati della tratta degli schiavi. Ci si rifiuta di accettare che oggi l’immigrazione è diventata non solo un’opportunità per la crescita culturale che l’integrazione può portare al paese, ma soprattutto una necessità se si ragiona in termini prettamente economici.
Infatti, l’invecchiamento della nostra popolazione, causato dall’aumento della speranza di vita e dal basso indice della natalità, provoca una riduzione del numero dei contribuenti per ogni beneficiario di aiuti pubblici: che siano pensioni, sostegni sanitari, o anche misure di welfare. In questo senso l’immigrazione potrebbe dare un aiuto non da poco. Se è vero che all’inizio i paesi devono assumersi i costi dell’integrazione sociale degli immigrati, è altrettanto vero che la loro giovane età farebbe di loro dei contribuenti netti nel lungo periodo, se solo il loro lavoro fosse regolarizzato e non sottopagato.
Vincenzo Ciervo