Se è vero quanto si afferma, che la lingua sia lo specchio di una società in costante mutamento e che la parità di diritti passi anche attraverso il suo impiego socio-politico, garantire che il linguaggio inclusivo rimanga in primo piano in un’educazione transfemminista e paritaria, che sia pensato come qualcosa di rilevante per tutti, è il primo passo verso la costruzione del concetto di giustizia sociale.
La lingua ha alle sue basi precisi domini di potere e può essere considerata strumento di oppressione e controllo. Una rivoluzione linguistica basata sul genere ha come presupposto il fatto che il linguaggio non sia gender-neutral e che i significati linguistici – o contenuti, ossia la parte non materialmente percepibile di un segno – siano, in larga misura, socialmente costruiti.
Una riflessione su un linguaggio che possa essere definito inclusivo sembra essere recente, sviluppatasi negli ultimi anni insieme alle conseguenti polemiche. Si pensi alle reazioni dell’Accademia della Crusca e di noti grammatici italiani su temi legati al genere, quali l’uso dell’asterisco, della chiocciola o di altri segni accusati di “opacizzare” le desinenze maschili e femminili.
Ad oggi adottare nella propria quotidianità un linguaggio inclusivo di genere significa cercare di limitare l’utilizzo di parole, frasi, immagini e toni che rischino di perpetrare stereotipi di genere o discriminazioni verso specifici gruppi di persone sulla base della loro appartenenza di sesso, età, etnia e classe sociale. Una branca specifica della linguistica e della glottologia, la sociolinguistica, studia il rapporto tra lingue e società, e il suo assunto fondamentale è che il linguaggio verbale, oltre che a essere in costante evoluzione, sia prerogativa innata dei parlanti e si realizzi nella vita sociale e nei comportamenti interazionali degli individui.
Le prime che in realtà hanno cominciato a ragionare sistematicamente sulla lingua come strumento di oppressione e di propaganda del sistema etero-patriarcale sono state le femministe di seconda ondata, secondo cui è proprio nel genere grammaticale che si riflette il modello sociale androcentrico.
Una delle prime e maggiori teoriche sull’argomento e tra le prime a sottolineare l’importanza del linguaggio come questione politica fu Monique Wittig, che aderì a una specifica corrente anti-essenzialista del femminismo radicale francese, ossia quella materialista. Nel 1969 pubblica Les guérillères, manifesto femminista linguistico per eccellenza, dove al suo interno viene teorizzato come da una parte il linguaggio, le parole, le categorie siano luoghi di oppressione e soggiogazione che feriscono i corpi e le menti dei gruppi oppressi, ma allo stesso tempo siano spazi di riappropriazione, di lotta e rovesciamento, strumenti di liberazione collettiva e di nuova immaginazione di sé, nonché, insieme alla letteratura, luogo di azione.
L’apertura del dibattito in un’Italia che si avvia verso una rivoluzione linguistica ma di cui la lingua riconosce solo due generi grammaticali (maschile e femminile) si deve sicuramente all’impegno di Vera Gheno. Sociolinguista, traduttrice e docente universitaria, autrice di numerosi saggi di linguistica e comunicazione come Potere alle parole e Femminili singolari, studia ormai da tempo alcuni fenomeni linguistici molto dibattuti, come il problema del maschile sovraesteso – si pensi al lavoro di Alba Sabatini nel suo manuale Il sessismo nella lingua italiana (1987) – e del binarismo di genere, che precluderebbe alle persone non binarie di poter essere rappresentate dal punto di vista linguistico.
Per ovviare a questi, la studiosa propone la soluzione dello schwa o scevà, simbolo dell’IPA – International Phonetic Alphabet – di genere maschile, rappresentato da una “e” ruotata di 180°, ossia ə, che si trova al centro del quadrilatero delle vocali.
È importante ragionare sul come il termine inclusivo – come riportato dal vocabolario Treccani, “che include, comprende in sé qualcosa” sia in partenza da rivalutare, poiché porrebbe le basi per la creazione di una società normocentrica in cui i “normali” includono i “divergenti”, precludendo a quest’ultimi la facoltà di agentività. Per soccombere a questo problema – ossia alla problematicità del concetto di “inclusività” – lo scrittore Fabrizio Acanfora ha coniato la nuova definizione di linguaggio della convivenza delle differenze. Per questo si predilige il concetto di linguaggio “ampio”.
Superando la concezione per cui il linguaggio sia solo un mezzo attraverso il quale ci limitiamo a rappresentare e a riflettere la nostra realtà sociale, è importante sottolineare come le parole servano non solo a comprendere il mondo, ma anche a permettere al singolo e alla collettività di autodefinirsi e autorappresentarsi. Seppur proponendosi come universalmente neutro, è di per sé sessuato al maschile.
Per poter emergere e fuoriuscire dal giogo di un sistema sessista e ancora attualmente fortemente eteronormativo, è necessario, insieme alla trasformazione di tutte le componenti sociali e culturali della società, l’elemento rivoluzionario della ri-scrittura, intesa come hackeraggio, trasformazione, ribaltamento politico. Il linguaggio è un fare, è una produttività, è performativo.
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