Oggi, il mondo del giornalismo sicuramente non è uno dei migliori dove muoversi tra censure, ostacoli e distorsioni della realtà, che mettono a dura prova la deontologia dei professionisti del settore. Ester Castano, consigliera per la Lombardia dell’Ordine dei Giornalisti, ha rilasciato un’intervista ad Ultima Voce in cui sono emerse le difficoltà delle nuove generazioni nell’esercitare deontologicamente la professione. A proposito, Ester non ha dubbi: «Il giornalismo d’inchiesta è la mia vita, ma c’è bisogno di una decostruzione del sistema per creare insieme un nuovo futuro».
Ciao Ester, grazie per la tua disponibilità. Per cominciare raccontaci, chi è Ester Castano?
Ciao! Dunque, sono consigliera dell’Ordine dei Giornalisti per la regione Lombardia, con delega a Giovani, Nuovi Giornalismi e alle Pari Opportunità. Sono stata la più votata alle elezioni del 2021 e la volontà delle colleghe e dei colleghi lombardi era nominarmi Presidente. Per i numeri è stato un chiaro e forte segnale, una spaccatura dato che solitamente le cariche della nostra categoria sono ricoperte da persone in là con gli anni, se non pensionati sono prossimi alla pensione e soprattutto hanno forti contratti giornalistici alle spalle.
Sono lavoratori e lavoratrici molto strutturati, che possono permettersi di ricoprire il ruolo di consiglieri e di Presidente dell’Ordine dei Giornalisti perché sono ruoli non retribuiti, ma molto importanti. Significativo sarebbe stato se il ruolo di Presidente fosse stato ricoperto da una persona giovane, donna e precaria, che oggi rappresenta il volto della professione.
Come mai non sei diventata Presidente dell’Ordine dei Giornalisti?
Più che altro per questione di correnti sindacali e altre similarità. Infatti, né io né la seconda degli eletti, che è una giornalista affermata e con molta esperienza, più grande di me ma sempre donna, siamo state nominate. Alla fine come Presidente è stato scelto dalla maggioranza degli eletti, cioè nove, il terzo per numeri di voti ricevuti, un uomo, che senza dubbio è una persona corretta e uno stimato collega che sta svolgendo al meglio il suo ruolo, anche apportando innovazioni all’ente lombardo e mi sostiene nelle mie proposte.
Così va la nostra società e il giornalismo non è esente da una visione conservativa e patriarcale. L’elettorato era pronto a una svolta al passo con i tempi, l’istituzione no. In generale l’Ordine dei Giornalisti si basa sul privilegio economico di poter rivestire determinate cariche, motivo per cui ai giovani freelance è pressoché impossibile immaginare di ricoprirle.
Ci racconti il tuo percorso? Sappiamo che sei l’artefice di inchieste che hanno scosso non poco il nord Italia
Ho iniziato a scrivere a 17 anni, in una redazione in provincia, fuori Milano, soprattutto sul tema della criminalità organizzata e di stampo mafioso. Una delle mie inchieste ha contribuito a sciogliere il comune di Sedriano, il primo comune lombardo ad essere sciolto per infiltrazioni della criminalità organizzata. Dopodiché, ho cercato di togliermi varie etichette come quella di giornalista antimafia perché essere antimafia mi sembra una cosa che dovrebbe essere insita nella professione di giornalista.
Ho quindi provato a smarcarmi da quel titolo che voleva inglobarmi. Ho fatto la mia carriera partendo da casi locali per arrivare la cronaca e la politica nazionale, come freelance ho avuto l’opportunità di occuparmi anche di esteri. Più o meno è questo il mio percorso istituzionale e professionale.
Quanto ti senti cambiata dall’inizio della tua carriera ad oggi?
Oggi sono più realistica rispetto a quando ho iniziato, sicuramente molto del coraggio di quel periodo iniziale era dovuto all’incoscienza e alla voglia di fare questo mestiere facendolo realmente sul campo, consumando la suola delle scarpe. Crescendo e ampliando la mia esperienza professionale, anche entrando nelle redazioni, ho capito che questo non sempre è possibile. Ho fatto per tanti anni anche un lavoro di desk, che per natura mi appartiene meno.
Che cosa ti ha fatto capire che il giornalismo è la tua vita?
A questa domanda Ester Castano risponde che ciò che la sprona di più è il ruolo educativo che può avere il giornalismo, è un mestiere molto importante che, se fatto bene, permette di trovare la verità e di analizzare i fatti con più fonti, per poi fornire il risultato della ricerca ai cittadini e fare in modo che anche loro abbiano gli strumenti per comprendere il mondo. Sicuramente, gli anni delle inchieste nella criminalità organizzata e in particolare della Ndrangheta al nord sono stati anni di grandissime soddisfazioni personali per Ester.
Diventando più grande e anche per cercare di uscire dalla condizione di grave precariato (si parla di inchieste e articoli retribuiti a 5 euro l’ora) e dalle situazioni gravose che ancora oggi esistono capisci che il lavoro è dignitoso quando è retribuito e quindi anche lavorare in una redazione, come può essere un’agenzia stampa, serve per uscire da quell’utopia che vede il giornalismo come una missione. No, il giornalismo non è una missione, il giornalismo è un lavoro a tutti gli effetti, che deve essere ben retribuito.
Oggi come svolgi la professione?
Negli ultimi anni ho avuto delle rivincite personali. Nel periodo Covid-19 ho consolidato l’idea che la redazione in cui lavoravo, per quanto fossi stabilmente contrattualizzata, era per me un ambiente molto tossico. Non è stato affatto semplice, ma ho deciso di scommettere su me stessa, mi sono dimessa e sono tornata freelance. Il lavoro sul campo è la mia passione, è quello che mi spinge ad essere giornalista. Ho potuto di nuovo operare sul campo, sono tornata in Palestina, ho seguito una carovana umanitaria al confine con l’Ucraina.
Ovviamente, un lavoro redazionale dietro una scrivania fatto bene ha una grandissima dignità, dipende molto da come ognuno di noi è fatto e da come preferisce operare. La mia natura mi ha sempre portata a prediligere il lavoro sul campo, dalla fabbrica occupata dagli operai in cassa integrazione ai casi di femminicidio: mi piace vedere con i miei occhi come vanno le cose.
Purtroppo oggi è sempre più difficile operare sul campo, perché chi lo fa fare alla redazione di pagare le spese per una trasferta quando basta fare una telefonata alle forze dell’ordine per recuperare una notizia? Il lavoro giornalistico d’inchiesta deve essere presente sul territorio, è molto difficile oggi trovare un editore o una redazione che comprenda questa necessità deontologica.
Anche queste riflessioni su tali “mancanze strutturali” ti hanno spinta a candidarti come consigliera per l’Ordine dei Giornalisti?
Allora, diciamo che la mia candidatura non è stata spontanea, ma è nata da una richiesta avanzata da colleghe e colleghi. Ci ho riflettuto sopra e alla fine l’ultimo giorno disponibile ho risposto affermativamente. Non ho nemmeno fatto campagna elettorale perché sono abituata a stare dietro le quinte piuttosto che sul palcoscenico, ho fatto giusto un video, anche sottotono, autopromuovermi non è una mia qualità.
Comunque, risposi positivamente perché penso sia fondamentale che noi giovani prendiamo la parola e dobbiamo essere uniti per scardinare un sistema che non fa parlare i più giovani e non riesce a comunicare con le nuove generazioni, basti pensare che l’Ordine dei Giornalisti non sa usare i social media. A mio parere questa è una delle tante occasioni perse, quindi ho deciso di accettare la proposta per dare il mio contributo in questo percorso verso il futuro, perché il mondo giornalistico ha bisogno di nuovi contributi, quindi dobbiamo prendere la parola. Se non ce la danno, dobbiamo inevitabilmente prendercela.
Ricordo che comunque i servizi offerti dagli Ordini sono a titolo gratuito, perché di solito chi ricopre queste cariche ha un background alle spalle, per cui sono giornalisti in grado di poter sostenere gli oneri dell’Ordine gratuitamente rispetto alla nuova generazione, che è appunto la generazione dei freelance precari di cui anche io faccio parte. Nel mio, sto cercando di dare il contributo con corsi di formazione per l’Ordine dei Giornalisti, oltre a collaborazioni interordinistiche per studiare il gender gap e le discriminazioni di genere nel nostro lavoro.
Per quanto riguarda il mio di lavoro, riprenderò a pieno regime il prossimo autunno dopo un periodo di maternità in cui ho mantenuto attivamente fede ai miei impegni di consigliera: oltre al calendario istituzionale, organizzo corsi di formazione per giornalisti, monitoro i media presentando esposti al Consiglio di Disciplina dell’Ordine quando ritengo che sia calpestata la deontologia, soprattutto riguardo alle tematiche di genere e diritti. Sto scrivendo un libro e ho lanciato la mia newsletter “Pensieri speziati” su Substack.
Vogliamo aprire un bel tema delicato, ossia come conciliare la maternità e la vita professionale? Un tema che in Italia va oltre il mondo del giornalismo
Sappiamo che il tema della professione e della maternità in Italia è un tema delicato e se sei freelance lo è ancora di più. In questi anni ho capito che è giusto avere una vita privata al di fuori della professione, in passato ho fatto tanti sacrifici e ora mi rendo conto che è un’ingiustizia, eppure vedo ancora tante proposte di lavoro come se fosse normale lavorare 6 giorni su 7, con disponibilità illimitata mentre il mondo sta andando in direzione opposta, anche in Italia ci sono proposte per la settimana lavorativa da 4 giorni invece per noi non funziona così, anzi, devi considerarti fortunato ad accettare queste modalità di lavoro.
Ester riflette anche sul fatto che i giornalisti sicuramente scelgono questo mestiere per provare a migliorare il mondo, ma esiste una vita fuori dalla redazione, esiste il benessere personale, umano, di relazione. Nel tema della precarietà è difficile cambiare perché si pensa che essere freelance significa essere liberi e invece è sinonimo di precariato.
Io ho perso un lavoro che mi avrebbe garantito un’entrata fissa nel momento in cui ho comunicato di essere incinta. Ovviamente devono cambiare le cose, ma parlandone si rischia di cadere nella retorica. In questi primi anni di consigliera ho capito che siamo tutti bravi coi manifesti elettorali, ma le cose devono essere fatte passo passo e anche nel proprio piccolo.
Per questo ho deciso di organizzare dei corsi di formazione online, che sono anche obbligatori per legge. Questo è il mio contributo per l’Ordine, che dovrebbe essere un ente che tutela e disciplina la deontologia, per questo esiste l’Ordine dei Giornalisti. Il fatto di crearli online li rende raggiungibili in tutta Italia.
Entrando nel merito della deontologia, non molto tempo fa hai caricato una storia su Instagram riguardo un webinar sull’islamofobia e sull’arabofobia organizzato da te e cancellato dall’Ordine. Vuoi dirci qualcosa di più?
Sì, il webinar che è stato respinto era un corso proposto da me sull’islamofobia e l’arabofobia perché ritengo sia urgente affrontare queste tematiche e dare degli strumenti alle colleghe e ai colleghi che lavorano sui testi, sulla fotografia. Ad esempio, siamo in una manifestazione in piazza, si parla di donne e si parla di Medioriente. Il fotografo istintivamente farà la fotografia alle donne con il velo. Perché fa quella scelta, è corretta? Per quello ho pensato di affrontare queste delicate tematiche con persone che si occupano da anni di arabofobia e islamofobia.
Negli ultimi giorni in una città multietnica come Milano sono apparsi anche manifesti politici contro il velo: quali riflessioni e contributi può portare il giornalismo? Qual è il ruolo e la responsabilità del giornalista in un clima di odio simile?
In teoria, nel Corano è indicata la libertà alle donne islamiche di scegliere se indossare il velo o meno
Esatto. Le donne velate in Italia vengono quasi sempre rappresentate dai media come oppresse, analfabete e isolate: non è così, basterebbe studiare e informarsi, cose da cui anche la nostra categoria non dovrebbe essere esente. Il focus del mio corso era anche la rappresentazione che i media occidentali perpetuano nei confronti dei popoli vessati dalle guerre, ossia come vittime bisognose di pietà. Questa è una narrazione che non lascia spazio e legittimità alle rivendicazioni collettive degli oppressi e, in questo scenario, quanto influisce la visione eurocentrica sulla percezione del mondo e sulla qualità delle notizie trasmesse?
Soprattutto in questo momento storico, con le fortissime tensioni tra Hamas e Israele
Infatti, mi sono chiesta anche quanto il nostro punto di vista sulla guerra tra Hamas e Israele e su ciò che avviene nei Territori Occupati possa essere condizionato dall’islamofobia e dall’arabofobia, se la stampa stesse dando il giusto spazio ad esperti palestinesi, come politologi, giornalisti e accademici. L’obiettivo sarebbe dovuto essere superare il clickbait nell’era social e anche l’ostinazione nel definire ciò che sta succedendo “conflitto”, quando la realtà è ben più grave.
Qui entra in gioco la deontologia della professione giornalistica e questo webinar avrebbe avuto il contributo di Alba Nabulsi, una preparatissima giornalista italo-palestinese nonché fondatrice del collettivo Zaituna e della ONG Rigeneri, Laura Silvia Battaglia al-Jalal, specializzata in Medioriente e direttrice delle testate della Scuola di giornalismo della Cattolica di Milano, il direttore di Q Code Mag Christian Elia, anche inviato per il Medioriente e Balcani e Laila Sit Aboha dell’European Legal Support Center e attivista dei Giovani palestinesi in Italia.
Quindi, l’Ordine ha deciso di perdere questa preziosa occasione di formazione per i professionisti del settore?
Ester ci spiega che secondo lei è un’occasione persa perché il webinar partiva da uno sguardo critico al nostro punto di vista, occidentalista ed eurocentrico, che non è una colpa, ma è un meccanismo che va decostruito perché quando lei, che è una donna bianca, approccia a una situazione di piazza in cui ci sono donne con il velo, la personale capacità di analisi, se non decostruita, potrebbe andare a creare delle distorsioni della realtà nutrite da un pregiudizio interiorizzato. In sostanza era questo il tema che Ester Castano avrebbe voluto affrontare nel suo webinar.
Per decostruzione intendi un modo di mettersi in discussione?
Sì, mi includo anche io in questa società, perché in quanto bianca riconosco di essere privilegiata. Sono donna, quindi questo è un po’ meno un privilegio, ciò non toglie che anche io ho bisogno di mettermi in discussione. Dato l’argomento, è ovvio che ho invitato figure esperte nelle materie trattate, sicuramente non ho fatto come a Porta a Porta dove a parlare di aborto c’erano sette uomini bianchi. A questo punto sogno un giorno di parlare di vasectomia e problemi alla prostata con altre sei donne.
Scherzando, potremmo dire che sembrava davvero una puntata di Bojack Horseman
Veramente, meglio lasciar perdere. Pensate che gli ospiti che avevo invitato ci avrebbero dato un’idea dell’arabofobia e l’islamofobia in Italia e riguardo alla modalità di narrazione da parte del giornalismo occidentale dei territori di loro competenza. Christian Elia avrebbe potuto parlarci del fenomeno a partire dalla sua esperienza di lavoro nei Balcani, Laura Silvia Battaglia ha un’esperienza pluridecennale in Libano, Israele e Palestina, Gaza, Afghanistan; Kosovo, Egitto, Tunisia, Libia, Iraq, Iran, Yemen e confini siriani. Eppure, l’Ordine ha deciso di bocciarlo e la cosa che mi ha fatto davvero indignare è stato che, nonostante fossi la promotrice nonché moderatrice del corso, non c’è stata comunicazione con me.
Come hai scoperto che il webinar era stato cancellato?
Solitamente, se in un webinar c’è qualcosa che non va, ad esempio nei crediti formativi deontologici che devono avere gli ospiti per far formazione ai colleghi e il Comitato Tecnico Scientifico dell’Ordine si accorge che un ospite non ha abbastanza crediti, avviene una comunicazione. Di solito, il CTS comunica che il corso può passare ma che deve essere prima regolarizzata la situazione del collega sennò non può fare formazione. Ovviamente, è giustissimo. Purtroppo, nel mio caso non è arrivata nessuna comunicazione, mi hanno avvisata dal regionale e poi ho dovuto attivarmi io per chiedere spiegazioni e aprire un canale comunicativo.
Quali spiegazioni ti hanno dato per la cancellazione?
Posso dire che le ho trovate imbarazzanti? Mi è stato detto che il corso era rischioso e pericoloso, che avrebbe messo in imbarazzo l’Ordine, che non potevamo dire ai colleghi come raccontare la guerra. Un altro discorso, dicono, sarebbe stato se il webinar fosse stato organizzato prima del 7 ottobre 2023, il problema, mi è stato sottolineato, è che c’è un conflitto in corso e per l’ODG nazionale non possiamo parlare di genocidio.
Perché non possiamo parlare di genocidio?
A quanto pare l’Ordine dei Giornalisti non può parlare di genocidio, c’è un conflitto e non possiamo, mi è stato detto, non perché il genocidio non esista, ma perché per l’Ordine affermarlo equivarrebbe a essere di parte in questo conflitto. Diverso, mi è stato comunicato, sarebbe stato se avessimo avuto un ospite israeliano, perché a dire dell’Ordine dei Giornalisti nazionale «Se parliamo di islamofobia dobbiamo parlare anche di antisemitismo».
Ma tu non avevi proposto un webinar sull’odio razziale
Esatto, io avevo proposto un corso specifico su arabofobia e islamofobia perché ne ho sentito la necessità confrontandomi con le nuove generazioni dentro e fuori le redazioni. Esattamente come ho proposto un corso sugli stereotipi legati alla narrazione delle comunità Rom, Sinti e Caminanti, o sulla corretta informazione e racconto dei disturbi alimentari, anche in ottica di decostruire la grassofobia e l’abilismo. Nelle scorse settimane, non ricordo in quale regione, è stato fatto un corso ODG su Aldo Moro, quindi mi domando: oltre agli esperti, agli storici in sala, hanno invitato anche qualche brigatista? Posso fare altri esempi del genere, ma il concetto è questo.
Questo discorso che ci debba essere sempre la controparte va bene, ma dobbiamo contestualizzare. E poi, quale controparte? A mio parere, c’è anche stato un problema di comprensione del testo della mia proposta, il tema è ovviamente caldo e mi è stato sottolineato di non aver subito pressioni, ma qualche visita indiscreta sì. Oltre tutte le riflessioni che possiamo fare, è evidente che c’è un doppio standard nella narrazione del cosiddetto “conflitto” sulla Striscia.
La cosa che dovrebbe indignarci è che non si parla di più di cento colleghi palestinesi uccisi a Gaza, delle famiglie dei giornalisti targhetizzate anche in West Bank, è una strage. Non ho letto prese di posizione coraggiose da parte dell’istituzione del giornalismo. Anche nelle manifestazioni che ci sono ogni settimana in ogni città, prendiamo ad esempio Milano, in cui si chiede il cessate il fuoco e lo stop al genocidio in corso, io non vedo gruppi organizzati di giornalisti presenti a rivendicare il fatto che la libertà di informazione debba essere garantita ed è inconcepibile che venga impedito il lavoro giornalistico a Gaza, i giornalisti e le loro famiglie vengono targhettizzati.
Comunque, Il tema del webinar era molto più ampio e non riguardava solo quella parte di mondo, ma tutte le persone vittime di arabofobia e islamofobia e mi è stato detto che adesso è un’iniziativa pericolosa.
Secondo te perché questo webinar ha spaventato così tanto i colleghi dell’Ordine?
Perché non ci si vuole esporre. Influisce tanto il fatto di non dare spazio ai giovani, l’accesso alla professione è difficile, la prima generazione non ha collegamenti con la seconda e terza generazione, quindi se solo ci fosse una visione più inclusiva si capirebbe che parlare di arabofobia e islamofobia è un’urgenza che nasce dalla richiesta delle nuove di generazioni di giornalisti, ragazzi e ragazzi che vivono i cambiamenti della società e che stanno cercando il loro spazio nel mondo del giornalismo. Ancora oggi governano le redazioni i giornalisti più anziani e purtroppo non si rendono conto che il mondo sta cambiando.
Ripeto che il mio webinar non era sul conflitto in Medioriente, ma il fatto di aver invitato dei giornalisti italo-palestinesi era un problema, non ha senso bocciarlo perché non c’era la controparte. Ripeto: quale potrebbe essere la controparte se si parla di decostruire l’odio rivolto a una determinata etnia e fede religiosa?
Certo, anche perché la visione ampia del webinar avrebbe incluso quello che è anche un problema italiano, visto che non siamo esenti da arabofobia e islamofobia
Ester ci spiega che era un webinar di messa in discussione sulla visione eurocentrica e occidentalista che abbiamo. Infatti, è necessario comprendere il concetto di decostruzione. A febbraio è stato fatto un webinar sul decostruire gli stereotipi di genere e la visione maschile sessista delle redazioni. Anche in questo caso, per Ester l’obiettivo era decostruire gli stereotipi, che siano in base al credo, al proprio aspetto, alla propria provenienza.
Quindi, anche in base alla tua ammirevole esperienza nel campo del giornalismo, vuoi essere parte attiva di questo cambiamento?
Allora, nel corso della mia carriera sono passata dalla cronaca locale a quella nazionale e ciò mi ha permesso di vedere ed individuare con i miei occhi le falle del sistema. Ho visto quanti stereotipi esistono e alcuni pregiudizi sono interiorizzati. Anche io mi metto in discussione perché tutti dobbiamo metterci in discussione, è il concetto chiave in quest’epoca, soprattutto per chi vuole fare il giornalista.
Rispetto a tutto quello che stiamo vedendo, ad esempio la proposta di legge con il carcere per i giornalisti e le varie censure, possiamo dire che non è un periodo facile per i giornalisti?
No, decisamente non è un periodo facile ma non è nemmeno inaspettato perché i segnali c’erano già. Sono anni che la direzione è questa, gli elementi portano verso una “fascistizzazione“, mi permetto di utilizzare questo termine perché è un processo a cui stiamo assistendo e che non è iniziato oggi, il problema è che lo stiamo permettendo e non dobbiamo mai smettere di scandalizzarci o indignarci quando vediamo parlare sette uomini d’aborto o se assistiamo alla cancellazione di un monologo sul 25 aprile.
Il clima non è favorevole a un giornalismo libero, attento e non al servizio del potere, ma di contro può stimolare nuove forme di giornalismo, nuove forme di lotta e nuove voci per far valere i diritti. Se oggi il giornalismo ha un senso non deve tacere verso le libertà che potrebbero esserci tolte. Per questo per me è importante che l’Ordine dei Giornalisti prenda oggi posizione nei confronti dei più di cento colleghi uccisi a Gaza, sarebbe un atto di libertà e di indipendenza.
Forse un esempio pratico di ciò che dici è l’atto di Serena Bortone di leggere il monologo di Scurati sul 25 aprile
Lei è stata davvero molto coraggiosa e ha dimostrato cosa vuol dire essere giornalista. Non dobbiamo perdere l’occasione di denunciare i diritti soppressi, anche il fatto che sia stata una donna a compiere un atto di ribellione del genere è perché noi donne ogni giorno facciamo un lavoro di decostruzione su noi stesse, molto di più rispetto agli uomini. Ora lei rischia il provvedimento disciplinare, per me il suo atto di ribellione è stato giusto.
Certo, lei ha mandato un fortissimo segnale di indipendenza e soprattutto ci ha ricordato che l’Italia è fondata sulla Carta Costituzionale ed è antifascista, è così
Sono totalmente d’accordo, il fatto che il 25 aprile sia divisivo è errato perché l’antifascismo è un valore che va oltre, questa narrazione dei media con l’antifascismo che è diventata esclusivamente materia di sinistra mi porta a pensare che forse bisogna rileggere qualche libro di storia e i testi su chi erano gli antifascisti di ieri. L’antifascismo è la base della nostra Costituzione, nelle brigate partigiane non c’erano solo i comunisti, c’erano anche persone di Chiesa ad esempio e non solo, dovremmo rileggere tutti i libri di storia partendo dalla Costituzione.
La conversazione con Ester Castano è stata senza dubbio ispiratrice, è una donna che ha realmente cambiato gli assetti della società italiana con le sue inchieste e ha ragione, c’è bisogno di decostruzione nel nostro pensiero per fare in modo di scrivere un futuro diverso e soprattutto gridare giustizia per tutte le persone ingiustamente vessate da un sistema che ha un doppio standard quando si parla di diritti umani.
Aurora Colantonio