Il romanzo autobiografico Hijra di Saif ur Rehman Raja, pubblicato da Fandango Libri, prende in considerazione un tema di fondamentale importanza, soprattutto oggigiorno, ossia il concetto di “accettazione”. Quanto è difficile oggi essere accettati dalla società? Ormai, tutti noi pensiamo di avere il diritto di giudicare qualsiasi comportamento non conforme al nostro modo di pensare e al nostro punto di vista. Ma è esattamente qui che sbagliamo, perché la libertà di pensiero e di azione ci rende unici. Un romanzo che si sofferma anche su altre due tematiche: l’omosessualità e il multiculturalismo. Una vita, quella di Saif, che si divide tra il Pakistan e l’Italia: “troppo pakistano per gli italiani, troppo italiano per i pakistani”.
Identità personale
Sadiq Khan, politico britannico di origini pakistane, ha detto una frase estremamente importante sul concetto di identità:
«Sono un londinese orgoglioso, inglese, europeo, di origini pakistane, musulmano – tutti abbiamo molteplici strati di identità – questo è ciò che ci rende quello che siamo».
Oggigiorno, è difficile riuscire a costruire una propria identità personale, ossia ciò che siamo e come ci rapportiamo con il mondo circostante. Un processo alquanto difficile perché quando nasciamo i nostri genitori proiettano su di noi obiettivi, modi di essere che magari non c’entrano nulla con noi.
L’individuazione è il processo di costruzione della propria identità, che inizia già durante l’infanzia e prosegue per tappe. L’identità personale inizia a prendere corpo a partire da alcuni punti di riferimento: ciò che dicono i nostri genitori e i condizionamenti sociali e culturali. Questo processo non si esaurisce nell’età adolescenziale ma, addirittura, prosegue e muta continuamente anche nell’età adulta.
Quante volte ci è capitato di non riconoscerci nei desideri dei nostri genitori? Purtroppo, non tutti i genitori lasciano grande libertà di scelta, di conseguenza spesso ci dobbiamo adattare, costruendo un’identità personale che non ci rispecchia. Si tende così a confondere i propri bisogni con quelli degli altri. Così è successo al protagonista di questo romanzo, nonché autore, il quale ricorda come tutti abbiano festeggiato non la sua nascita ma la proiezione che si sono fatti loro sulla sua carne. Per fortuna, alla madre, Amma Shakeela, non interessa che lui sia un maschio o una femmina, ma le interessa di poter toccare le sue guance rosse che sono sinonimo di salute. A lei interessa che lui stia bene, tutto il resto passa in secondo piano.
Il suo nome, Saif ur Rehman Raja, significa “la spada di Allah”. Ossia colui che ama la giustizia, che non la teme, colui che alza la voce per essa. Del resto, il nome di una persona è la prima identità.
Perché proprio Hijra?
Non è un caso che il titolo del romanzo sia Hijra, la cui traduzione significa omosessuale. Ed è così che lo chiama Abba Shabbir, il papà di Saif che non sembra nutrire particolare amore nei suoi confronti. Il classico padre padrone che esercita il suo “ruolo” dispotico e oppressivo nei confronti della famiglia. Un padre che non conosce il concetto di amore e affetto, che sa educare solo tramite la violenza. Mai una parola di conforto per il figlio, ma solo ordini, regole e botte.
Quando Saif nascerà il padre non sarà presente, e la sua scusa sarà di essere stato impegnato con il lavoro in Italia. Non conoscerà il colore dei suoi occhi, il suono del suo pianto, l’odore della sua pelle appena nato. Ci vorranno 4 mesi per conoscerlo, 11 anni per viverlo e 22 per il primo abbraccio. Una famiglia che si dimostrerà unita e accogliente solo quando nascerà.
Un’infanzia trascorsa a Rawalpindi in Pakistan con la madre, i due fratelli minori e la famiglia del nonno materno. Tutto cambia all’età di undici anni, quando la sua famiglia si trasferisce in Italia, a Belluno, dove lavora e vive il padre. Tutti tranne lui, che rimarrà due anni a casa con i nonni. Qui iniziano le difficoltà: abbandonato dalla sua famiglia, costretto a vivere una vita lontana dagli affetti, soprattutto lontano dalla madre. Una vita che non lo rispecchia: lui ama ballare, cucinare, tutte attività non conformi al mondo maschile.
Poi si passa al suo ricongiungimento con la famiglia a Belluno, lontano dagli amici di una vita, gli unici che lo accettano per come è, senza pregiudizi ed etichette. La vita in Italia non è una passeggiata, anzi, è una vera e propria lotta. Una cultura del tutto diversa da quella del Pakistan. In lui prendono il sopravvento moltissime domande: i suoi amici si sentiranno traditi? Troverà altri amici dove sta andando? Verrà accolto o gli sarà chiesto di dimenticare il passato? Potrà chiamare casa un posto mai visto in cui non è cresciuto?
In Italia tutto è diverso, non ha nulla che gli ricorda il Pakistan. Non è abituato a vedere donne che lavorano, che sono autonome e indipendenti. Non è abituato a vedere nemmeno donne vestite come gli uomini o che fumano negli spazi chiusi. Le considera delle poco di buono, inserendole in una categoria secondo quanto gli è stato insegnato. Anche le spezie non sono come quelle del Pakistan.
A scuola tutto è ancora più difficile. Fa fatica a integrarsi, sia perché non capisce molto bene l’italiano sia perché è sempre stato cresciuto in classi separate. Nessuno è veramente interessato ad accettarlo per quello che è, nemmeno ad aiutarlo. Il padre gli dice:
«Impara a vivere come gli italiani, a comportarti come loro e a osservare le loro regole, e vedrai che nessuno ti darà fastidio. Vedrai che sarai accettato».
Nella scuola italiana i compagni ma anche la gente in generale gli fa sentire il peso della responsabilità. Sembra che lui sia accettabile solo se si comporta in un determinato modo, altrimenti viene visto come quello strano, quello che chiunque sente la libertà di prendere in giro.
La difficoltà di essere sé stessi
Saif non solo non viene accettato in Italia, ma durante le vacanze estive, quando torna in Pakistan con la sua famiglia nemmeno lì viene più accolto come prima dai suoi nonni e dai suoi amici. In Pakistan viene visto come il nipote italiano, che ormai non rispecchia più le tradizioni familiari. Entrambi i paesi prendono le distanze da lui: troppo pakistano per gli italiani, troppo italiano per i pakistani.
Un percorso di accettazione non facile per gli altri ma nemmeno per sé stesso, soprattutto quando sarà obbligato ad ammettere di essere omosessuale. Non c’è stata nessuna distanza tra la consapevolezza e l’accettazione, è avvenuto tutto così in fretta. Ha paura di dirlo ai suoi genitori, ma ha paura anche della loro reazione, soprattutto quella del padre:
«Mia moglie ha dato vita a un hijra. Allah ha maledetto questa casa dandomi un mezzo uomo. Ti odio. Ora devierai anche gli altri due. Ora rovinerai i miei figli. Era meglio se te ne rimanevi lì, invece di venire qui in casa nostra».
“Casa nostra” come se quella non fosse casa anche di Saif, ma peggio ancora come se lui non fosse suo figlio. Sente da parte degli altri la necessità di essere definito in qualche modo, come se stesse vivendo un viaggio di transizione da incivile a civile, da pakistano a italiano, “mi sento pakistano ma vengo trattato come un ospite, e sentirmi italiano sembra non essermi permesso”.
Ma quanto è difficile allora sentirsi accettati, riuscire a costruire una propria identità personale quando si vive in un mondo fatto di etichette e pregiudizi?
«Che sia tu, Pakistan, che mi sbatti in faccia il mio urdu poco colorito, basilare e dai vocaboli ridotti. Fammi pure sentire ospite temporaneo, non mi interessa. Accoglimi come nipote italiano. Preparami paste o pizze mostruose. Ricordami che non sono degno di rappresentarti. Che sono un traditore della patria. Io sono più di tutto questo. O che sia tu, Italia, che fuggi da me. Temi pure la mia pelle marrone, io non mi sento in colpa. Giudicami. Fammi sentire fortunato a vivere in un paese civile. Pretendi che ti ringrazi, fallo tutti i giorni. Come se mi avessi salvato la vita».
Saif riuscirà a trovare un posto nel mondo? Non vi resta che leggere il romanzo.
Patricia Iori