Michele Marsonet
Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane
L’India, che si autodefinisce “la più grande democrazia del mondo”, è orgogliosa del suo sistema elettorale che, finora, ha garantito lo svolgimento regolare della vita politica del governo. Tuttavia, c’è un campanello d’allarme per la democrazia indiana, che si trova ad affrontare sfide delicate e complesse. Il Bharatiya Janata Party (BJP) è guidato dal premier Narendra Modi, il cui stile di governo è stato oggetto di critica per presunte tendenze autoritarie.
Oltre 968 milioni di cittadini si sono registrati alle elezioni politiche generali che si terranno nella Federazione Indiana, in sette fasi distinte, nel periodo compreso tra il 19 aprile e il primo giugno di quest’anno. Visto il numero enorme di elettori e la complessità del territorio, si dovrà attendere parecchio per conoscere i risultati finali. L’India, che si autodefinisce “la più grande democrazia del mondo”, è orgogliosa del suo sistema elettorale che, finora, ha garantito lo svolgimento regolare della vita politica e il governo dei partiti in grado di conquistare la maggioranza dei suffragi.
La democrazia indiana influenzata dal potere del “Bharatiya Janata Party”
Vi sono tuttavia grandi tensioni causate dallo strapotere del partito del premier Narendra Modi, il “Bharatiya Janata Party” (Partito del Popolo Indiano). Al potere dal 2014, Modi ha affermato di voler superare la quota dei 400 seggi, così rafforzando la maggioranza assoluta di cui già dispone. L’opposizione si sta raggruppando per tentare di sconfiggerlo. L’impresa, tuttavia, si preannuncia piuttosto ardua per due motivi principali.
Il primo è che l’opposizione è troppo frammentata per conseguire questo obiettivo. E’ composta infatti da un coacervo di partiti molto diversi tra loro, che corrono insieme soltanto per battere Modi e il suo “BHP”. Quest’ultimo, invece, è dominato dall’attuale premier e intende accentuare ancor più la politica identitaria basata sul predominio a tutti i livelli della maggioranza indù, a scapito delle numerose minoranze etniche e religiose presenti nel grande Paese asiatico.
Quello di Modi è un populismo a sfondo soprattutto religioso e identitario, che ha riunito le masse indù intorno a un progetto che intende imporre l’induismo quale base unificante della nazione, poco curandosi dei diritti delle consistenti minoranze, e soprattutto di quella musulmana, da Modi ampiamente discriminata.
D’altro canto il vecchio Partito del Congresso, vero artefice dell’indipendenza dal Regno Unito e un tempo dominato da figure carismatiche quali Nehru e Indira Gandhi, è in condizioni critiche e ha sofferto un costante decremento di voti nel corso delle ultime elezioni. Nel 2019 ha ottenuto soltanto 52 seggi a fronte degli oltre 300 conquistati dal “BHP” di Modi. Inoltre il suo leader, Rahul Gandhi, gode di scarsa popolarità nella popolazione. Il declino del Congresso, che ha radici laiche e pluraliste, è una delle cause della crescente affermazione del nazionalismo indù praticato dall’attuale premier.
Nella democrazia indiana, Modi è favorito anche perché l’economia indiana è in piena espansione, essendo diventata nel 2022 la quinta potenza economica del mondo superando il Regno Unito, che colonizzò l’India negli ultimi due secoli. La Federazione Indiana sta inoltre attraendo un numero sempre maggiore di investitori stranieri, spesso in fuga dalla Cina.
Nel Paese c’è tuttavia grande inquietudine. Narendra Modi è spesso accusato di tendenze dittatoriali, e molti temono che un nuovo successo elettorale – che appare pressoché scontato – possa causare una deriva autoritaria della Federazione. Anche sul piano internazionale Modi gioca abilmente su più tavoli. Mantiene buoni rapporti con gli Usa ma, al contempo, è vicino alla Russia di Putin e cerca di raggiungere un modus vivendi con la Repubblica Popolare Cinese (che per l’India è un nemico tradizionale). Il premier indiano, insomma, è un vero camaleonte, disposto a tutto pur di posizionare il suo Paese al centro dello scenario mondiale.