La COP28 si è chiusa con un nuovo testo che lascia gli ambientalisti soddisfatti a metà. Nel documento il concreto “phase-out”, l’eliminazione graduale dei combustibili fossili e che più di 100 Paesi avevano invocato, è stato sostituito con un più modesto “transitioning away” da realizzare entro il 2050. Ma ciò che lascia maggiormente preoccupati è la presenza di diverse zone d’ombra e scappatoie nella dichiarazione finale che testimoniano come alla fine la geopolitica ha vinto di nuovo sul clima.
Un compromesso, importante, sicuramente al ribasso che cerca di tenere insieme posizioni per molti versi inconciliabili ma con una sola certezza, che la geopolitica ha vinto di nuovo sul clima. E’ quanto emerge, a un primo sguardo, dalla lettura del documento finale licenziato dalla COP28 appena conclusasi a Dubai negli Emirati arabi Uniti.
I negoziati, conclusi ai tempi supplementari, hanno prodotto un miglioramento netto rispetto alla penultima bozza emersa nella giornata di ieri. Tuttavia, pensare che a questo primo passo possa corrispondere l’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili soltanto perché per la prima volta le parole “fossil fuels” entrano in un testo finale della Conferenza delle parti, è eccessivamente ottimistico e forse anche un po’ ingenuo. Difficile, infatti, che da queste prime concessioni ne escano nei prossimi anni, secondo una legge non scritta della diplomazia, provvedimenti duraturi.
E pensare che prima dell’inizio dei lavori Sultan Al Jaber, il plenipotenziario Presidente-petroliere della Cop28, aveva dichiarato fiduciosamente di credere che un “risultato senza precedenti” fosse ancora possibile, lasciando intendere di poter raggiungere un accordo per limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5°C.
Sfortunatamente per Al Jaber che non considera il fallimento un’opzione perseguibile, le ultime stime di Climate Action Tracker suggeriscono che gli attuali impegni per il 2030 porteranno ugualmente a un aumento della temperatura mediana globale di 2,4°C entro il 2100, pericolosamente superiore all’obiettivo di 1,5°C formalizzato dall’Accordo di Parigi. Del resto, il transitioning away, inserito in extremis nella dichiarazione finale, più che una vittoria sembra una formula double face che lascia il nodo delle energie fossili intatto e immutato, come le divisioni tra le parti; da un lato, il mondo di coloro che vivono nell’orizzonte green e credono fermamente nelle rinnovabili pervasive e sufficienti; dall’altro i fautori della sostenibilità futura e mai presente.
Cosa c’è nell’accordo e cosa manca
L’articolo su cui si è concentrata l’attenzione dei negoziatori è il 28, nel quale si affronta il tema della transizione in uscita dalle fonti fossili nei sistemi energetici, in un modo ordinato ed equo per raggiungere le emissioni zero nel 2050 seguendo le indicazioni della scienza.
Tra i vari ‘inviti’ rivolti a tutti i paese c’è il richiamo a triplicare le capacità di energia rinnovabile e a raddoppiare il ritmo dei miglioramenti dell’efficienza energetica entro il 2030. Previsto, inoltre, l’impegno ad accelerare le tecnologie “zero carbon” e “low carbon”, con l’energia nucleare in prima fila, l’idrogeno a basso contenuto di carbonio e la nascente cattura e stoccaggio del carbonio.
Il documento suggerisce poi di accelerare sulla riduzione delle emissioni a livello globale di metano entro il 2030 e di quelle derivanti dal trasporto stradale, da realizzarsi anche attraverso lo sviluppo delle infrastrutture e la rapida diffusione di veicoli a zero e a basse emissioni.
Ma tra tutti questi inviti, proposte, auspici e suppliche varie, nel documento finale compaiono anche diverse zone d’ombra che gli stati produttori di combustibili fossili potrebbero sfruttare a loro vantaggio per continuare a fare profitti da capogiro. Ad esempio, una falla imbarazzante è quella che consente di continuare a utilizzare i combustibili di transizione – come il gas naturale – che emettono anche carbonio senza incorrere in sanzioni.
Preoccupazioni a riguardo sono emerse anche dal mondo della scienza e delle associazioni ambientaliste riguardo agli effettivi risultati raggiunti da questo ennesimo vertice sul clima arrivato alla sua ventottesima edizione. Di scappatoie e lacune nel testo approvato ha parlato, ad esempio, Teresa Anderson, responsabile globale per il clima di Action Aid che ha affermato:
“Il testo presenta molte scappatoie e offre diversi regali agli ecologisti, menzionando la cattura e lo stoccaggio del carbonio, i cosiddetti combustibili di transizione, l’energia nucleare e i mercati del carbonio”, – osservando che – “complessivamente traccia una strada irta di ostacoli verso un futuro senza fossili”.
Mentre la direttrice del Programma climatico globale del World Resources Institute, Melanie Robinson, ha elogiato il lavoro dei negoziatori affermando che:
“questo sposterà drasticamente l’ago della bilancia nella lotta contro il cambiamento climatico e supererà le immense pressioni degli interessi del petrolio e del gas”.
Ma l’aspetto forse più critico riguarda l’assenza di un riferimento forte alle responsabilità comuni e differenziate tra paesi sviluppati e non. Dal documento finale emerge un linguaggio sulle attività di adattamento alla crisi del clima privo di limiti temporali cogenti, così come resta piuttosto vago l’orizzonte di significato di alcuni termini impiegati (transformative adaptation” and “maladaptation avoidance). In questo caso la poca chiarezza è un modo per lasciare le decisioni in sospeso senza scontentare nessuno ma facendo capire a tutti che la decarbonizzazione hic et nunc è uno scenario destinato a rimanere fantascientifico.
Sicurezza energetica vs sostenibilità: perché la geopolitica ha vinto di nuovo sul clima
La COP28 si è chiusa con una dichiarazione di compromesso che non ha fatto né vinti né vincitori, un pareggio che forse scontenta un po’ tutti ma che ha dovuto tener conto degli obiettivi della sostenibilità senza dimenticare la centralità della sicurezza energetica.
Tuttavia, il fatto stesso che nel testo finale del summit siano assenti sia il termine “uscita”, sia la tabella di marcia che dovrebbe verosimilmente condurre verso questa uscita, lascia sorgere più di un dubbio su chi sia stato il reale vincitore di questa lunga maratona durata più di due settimane.
Se c’è un aspetto che emerge con forza da questa Conferenza delle parti è che la volontà dei grandi produttori ed esportatori di combustibili fossili, al di là dei proclami, non è poi cambiata così tanto. Lo dimostra il comportamento dei membri dell’Opec che dopo avere fiutato il pericolo hanno fatto intendere che la torta energetica può e deve crescere, e c’è spazio per tutti perché crescente è il numero delle bocche da sfamare anche a fronte di una transizione verso forme di energia sostenibili.
Tradotto nel linguaggio della politica internazionale questo significa che per la transizione intergenerazionale e per salvare i ghiacciai che si sciolgono c’è ancora tempo mentre la transizione infra-generazionale e l’abbattimento della povertà energetica nel nostro presente sono strategicamente più importanti. E’ in questo senso che la geopolitica ha vinto (di nuovo) sul clima.
Ecco perché è molto meglio, e meno rischioso, parlare di tagli delle emissioni, o ancor meglio di contenimento della temperatura, piuttosto che di eliminazione definitiva e irreversibile. L’imperativo resta ancora quello di rimanere sempre un passo indietro rispetto alla concretezza per scongiurare il rischio potenziale di alterare davvero il paradigma energetico corrente.
Due ragioni per salvare la Cop28
Quel che resta di buono di questa edizione della Conferenza delle parti è sicuramente che alla fine dei negoziati, il vero nodo di tutta la questione, il superamento delle fonti fossili, è venuto al pettine, anche se sostanzialmente è rimasto irrisolto. Ma dopo anni di silenzi e rinvii questa è già una grande conquista. Ma insieme a questo aspetto, ci sono poi altre due ragioni che hanno in parte salvato questa edizione della Conferenza delle parti, precisamente i due accordi sul nucleare e sulle rinnovabili.
Il documento finale ha mantenuto, infatti, il riferimento alla necessità di triplicare le rinnovabili e duplicare l’efficienza energetica entro il 2030, richiamando alla responsabilità tutti i paesi. Il paragrafo 30 del testo riconosce che il costo delle tecnologie a basse emissioni è calato sensibilmente negli anni grazie a innovazione ed economie di scala, e sottolinea la necessità continuare con la discesa dei costi e la disponibilità.
Sul fronte dell’energia nucleare, invece, il Declaration to Triple Nuclear Energy – siglato da 22 paesi – tra i quali Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Emirati Arabi, Corea del Sud, Francia – conferma l’impegno nel triplicare la capacità nucleare entro il 2050.
Anche in questo caso i tempi di realizzazione restano purtroppo incerti e non è dato sapere entro quanto verranno realizzati. Per le rinnovabili il principale ostacolo resta accelerare la corsa nella crescita della capacità, passando dall’11,2% degli ultimi dieci anni al 14,7% dei prossimi sette: aumentare il tasso di crescita di 3,5 punti contestualmente al crescere del denominatore non sarà facile. Per il nucleare, invece, la situazione è più complessa dal momento che la triplicazione della capacità sarebbe una vera e propria rivoluzione dopo l’andamento piatto degli ultimi dieci anni.
In fin dei conti, però, nei vertici sul clima a contare davvero, oltre alla volontà politica dei paesi coinvolti, sono i numeri che in questo caso testimoniano come, a distanza di otto anni dagli Accordi di Parigi, le emissioni siano sempre cresciute. Aspetto questo che lascia emergere il valore meramente politico, e di dubbia utilità pratica, non solo della dichiarazione finale di questo vertice, ma del formato in generale della Conferenza delle parti sul clima, evidenziando la sua ridimensionata capacità di incidere in modo profondo su questioni estremamente complesse in cui la logica del Tertium non datur non funziona quasi mai.
Tommaso Di Caprio