La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata nel 1948 dalle Nazioni Unite, ha raggiunto il traguardo dei tre quarti di secolo, ma il suo significato come riflesso della psicologia morale della nostra specie è ancora fortemente sottovalutato. Per buona parte dell’umanità l’applicazione dei trenta articoli della Dichiarazione resta un miraggio mentre l’ineguaglianza sociale è in forte crescita e la libertà di espressione è continuamente minacciata dal proliferare di governi autoritari e repressivi.
I Diritti umani universali iniziano in piccoli posti vicino casa, «così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti su nessuna mappa del mondo». Ne era sicura Eleanor Roosevelt che nel 1958 alle Nazioni Unite pronunciò queste parole in un celebre discorso in occasione della presentazione di un piccolo volumetto dal titolo In Your Hands, in occasione del decimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. La First lady statunitense era convinta che l’universalità dei diritti umani avesse radici ‘locali’ poiché credeva fermamente che il loro ‘destino’ fosse nelle mani di tutti i cittadini e quindi di ogni comunità.
Dal giorno in cui Eleanor Roosevelt pronunciò quel discorso sono oramai trascorsi sessantacinque anni e la Dichiarazione dei diritti umani ha centrato il traguardo dei tre quarti di secolo. Ma nonostante i progressi raggiunti negli ultimi decenni dalle Nazioni Unite, anche grazie all’impegno costante e coraggioso di attivisti e sostenitori dei diritti umani, la situazione alla fine di questo 2023 non lascia ben sperare per il futuro.
Per buona parte dell’umanità i trenta articoli della Dichiarazione restano soltanto un miraggio; ancora oggi nel mondo un bambino su dieci è vittima di lavoro minorile, intere regioni sono devastate da conflitti sanguinosi mentre campagne militari e pulizie etniche si svolgono sotto gli occhi indifferenti della comunità internazionale. La battaglia per l’uguaglianza civile, sociale e politica è ancora lontana dall’essere vinta e il tumulto causato dalla iniqua distribuzione globale del potere non fa che minare giorno dopo giorno l’universalità dei diritti umani.
Come nasce la promessa dell’universalità dei diritti umani
Quando il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale dell’Onu, riunita al Palais de Chaillot nel cuore di Parigi, approvò la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Seconda Guerra mondiale era finita da tre anni ma l’orrore dell’Olocausto e quello di un nuovo conflitto nucleare tra Usa e Urss, le due potenze che avevano sconfitto la Germania Nazista, erano più vivi che mai.
In quegli anni era, quindi, necessario stabilire dei parametri di base, universalmente condivisi, sul significato dei diritti umani nelle relazioni internazionali. Per la prima volta, gli stati membri delle Nazioni Unite facevano appello a un “linguaggio comune” che fosse capace di porre al centro l’idea dell’interdipendenza dei diritti umani; l’intento era di far avanzare insieme ai diritti civili e politici anche quelli economici, sociali e culturali, riconoscendo il diritto alla proprietà privata, alla sicurezza sociale, all’istruzione, al lavoro ed alla libera scelta dell’impiego, nonché quello a una remunerazione equa e ad un tenore di vita dignitoso.
Pur non essendo formalmente vincolante, la Dichiarazione Universale dei diritti umani rappresentava il documento più vicino al diritto pubblico internazionale dal momento che poneva l’universalità dei diritti umani in stretta relazioni con la loro inalienabilità. I diritti riconosciuti a ogni individuo in quanto tale, non erano una concessione elargita dal potere statale; né tantomeno qualcosa che poteva essere oggetto di compravendita o desiderabile soltanto perché utile.
Esiste davvero una moralità universale?
Sempre più spesso, quando si discute sull’esistenza o meno di una sintassi universale dei diritti umani, si ha la sensazione di maneggiare qualcosa di moralmente elevato ma allo stesso tempo terribilmente astratto, utilissima nell’ambito della scienza cognitiva ma superflua se calata nella bolgia delle relazioni internazionali. E l’ambiente intellettuale riflette sempre più questa prospettiva negativa.
Prima dell’attacco del 7 ottobre di Hamas, sul New York Times è apparso un articolo in cui si sottolineavano i dubbi crescenti di intellettuali, economisti e analisti circa l’effettiva esistenza di valori universali alla base delle norme e delle leggi internazionali sui diritti umani. Incertezze alimentate sulla scia di speculazioni e affermazioni che vedrebbero l’ordine internazionale “liberale”, fondato in parte su questi valori, in via di logoramento.
Per i sostenitori della formazione storica dei diritti umani, il delinearsi all’orizzonte di una guerra mondiale a pezzi e il conseguente tumulto nella politica internazionale potrebbero demolire dall’interno l’idea di universalità dei diritti umani, mostrandone la loro natura finita e facendoli apparire per quello che sono: un inevitabile costrutto sociale fondato su valori tutt’altro che assoluti.
Anche per questa ragione i diritti umani sono costantemente a rischio e la loro difesa – che non può essere un lavoro individuale ma un processo collettivo da non considerare mai concluso – incontra sempre più resistenze da parte di coloro che dubitano dell’esistenza di una moralità universale. In questo scenario poco rassicurante, il rispetto – o la mancanza di rispetto – degli articoli della Dichiarazione universale delle Nazioni Unite da parte di governi, organizzazioni politiche e paramilitari rappresenta senza ombra di dubbio un parametro appropriato per misurare il grado di accuratezza della percezione dell’universalità dei diritti umani da parte delle opinioni pubbliche e dei quadri di potere.
A che punto sono i diritti umani oggi
Viviamo in un epoca torbida, confusa, inquietante: con l’invasione russa dell’Ucraina la guerra è tornata a fare capolino in Europa; l’Africa subsahariana è sferzata da colpi di stato e guerre regionali; e in Medio Oriente la questione israelo-palestinese si è ridestata aprendo un nuovo capitolo di violenze e massacri dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre.
E mentre una parte del mondo discute dell’opportunità di aggiornare i diritti umani fondamentali, un’altra, quella dei sovranisti e delle destre xenofobe, razziste, nazionaliste, cerca di mettere in discussione anche quelli più basilari, come il diritto alla vita, alla libertà e alla scelta, o il diritto all’aborto. Prendiamo, ad esempio, il bellicoso Dansk Folkeparti (Partito Popolare Danese), presente con una sua delegazione nei giorni scorsi a Firenze al summit dell’ultradestra europea, “Identità e Democrazia”. In un capitolo del programma sull’immigrazione del DF si legge che le convenzioni internazionali, tra cui quella sui diritti umani delle Nazioni Unite, rischierebbero di soffocare la democrazia danese e il suo popolo. Ma idee come questa accomunano trasversalmente tutti i gruppi della galassia sovranista europea.
Un altra indicazione riguardo al pessimo stato di salute dei diritti umani arriva direttamente dal Rapporto 2022-2023 stilato da Amnesty International che rivela come i doppi standard e le risposte inadeguate alle violazioni dei diritti umani nel mondo abbiano alimentato negli anni impunità e instabilità, rafforzando regimi illiberali come Cina e Russia. Del resto, il silenzio assordante sulle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita; la mancanza di una presa di posizione netta da parte della comunità internazionale rispetto a ciò che sta accadendo in Egitto, per volere del suo nuovo faraone, Abdel Fattah al-Sisi; il rifiuto di contrastare il sistema di apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi, sono tutti esempi di come la grammatica morale universale stia pericolosamente perdendo di significato.
I diritti umani sono diritto internazionale
Anche oggi, proprio come settantacinque anni fa, il sentimento più diffuso nel mondo è la paura. Tuttavia, a giudicare dal modo in cui questa emozione ancestrale intensamente spiacevole è maneggiata dalla politica globale nella nostra epoca, sembrerebbe essere cambiato poco o nulla.
Nel 1948, dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, dal che aveva irrimediabilmente deteriorato le libertà degli europei e limitato i diritti di milioni di esseri umani in tutto il pianeta, le Nazioni libere trassero la forza sufficiente per permettere alla capacità morale umana di esprimersi finalmente senza più distorsioni e di dominare la paura attraverso i diritti.
Nel nostro tempo, invece, il perdurare di una certa ambivalenza nell’azione di difesa dei diritti umani da parte degli organismi internazionali e degli stessi stati, ha alimentato nelle opinioni pubbliche di tutto il mondo un senso d’impotenza e insicurezza che curiosamente sembra coincidere con la principale ragion d’essere delle istituzioni politiche. Negli ultimi anni, la ricerca spasmodica di funzioni di protezione e rassicurazione ha risposto in modo sempre più ipocrita e fallace alle ineludibili istanze provenienti dagli stessi cittadini, sedotti e poi abbandonati da quel bisogno crescente di sicurezza che è diventato più importante dell’applicazione e della difesa dei diritti umani.
Sin dalla sua emanazione, la Dichiarazione delle Nazioni Unite ha sempre cercato di dimostrare come i diritti universali fossero l’espressione ottimale della psicologia morale umana, in quanto risultato delle risorse cognitive condivise nell’ambito della politica e delle relazioni sociali. Ma l’attuale sistema internazionale sembrerebbe aver dimenticato questi buoni propositi, soprattutto se dopo settantacinque anni quasi la metà della popolazione globale è ancora priva di tutele nell’ambito dei diritti sociali, civili e politici.
Riflettere su questo punto cruciale per capire in che modo è possibile riaffermare l’universalità dei diritti umani in un mondo che per sua intima essenza è conflittuale, rappresenta forse il modo migliore di celebrare il traguardo dei tre quarti di secolo di un documento che ha dato voce alla capacità morale del genere umano di stabilire i criteri di base del significato di “diritti umani” nelle relazioni internazionali contemporanee.
Tommaso Di Caprio