124 anni fa nasceva a Mosca l’immensa, quanto sfortunata poetessa Marina Ivanovna Cvetaeva. Essa trascorse la sua infanzia in un ambiente ricco culturalmente, tant’è che a soli sei anni iniziò a scrivere le prime poesie. Il carattere della Cvetaeva fu da sempre ribelle ed autonomo, allo studio essa preferiva la lettura di autori come Puškin, Goethe, Heine, Hölderlin, Hauff, Baskirceva. A diciassette anni si trasferì da sola a Parigi per frequentare le lezioni di letteratura francese alla Sorbona. Nel 1910 pubblicò a sue spese il primo libro, ma nonostante ciò fu notato da alcuni fra i poeti più celebri dell’epoca, come Gumiliov, Briusov e Volosin.
Quest’ultimo introdusse la Cvetaeva negli ambienti culturali dell’epoca. In uno dei soggiorni che la poetessa passò a casa Volosin, essa incontrò il suo futuro marito Sergej Efron. Lo descrisse in una nota autobiografica del 1939-1940 con queste parole: “Nella primavera del 1911 in Crimea ospite del poeta Max Volosin incontro il mio futuro marito, Sergej Efron. Abbiamo 17 e 18 anni. Decido che non mi separarerò da lui mai più in vita mia e che divento sua moglie.”
Nel 1916, dopo un viaggio a Pietroburgo essa rafforzò la sua amicizia con Osip Mandel’stam, che però si innamorò di lei, seguendola a Aleksandrov, per poi allontanarsi improvvisamente. La primavera del 1916 rimase famosa nel campo della letteratura per i versi fra Mandel’stam e la Cvetaeva.
A venticinque anni la poetessa rimase sola con due figlie a Mosca, dove si stava verificando una tremenda carestia. Nel maggio del 1922 essa emigrò e si recò a Praga passando da Berlino, dove vita letteraria era molto vivace, favorendo nuove possibilità lavorative.
A Praga essa visse con suo marito dal 1922 al 1925. Sfortunatamente, diversi fattori portarono la Cvetaeva ad un graduale isolamento, fino ad arrivare all’emarginazione. Uno di questi fattori fu dettato dal fatto che Efron, suo marito, iniziò a collaborare per la GPU. Così egli dovette nascondersi in Spagna, da dove ripartì per raggiungere la Russia. Marina Cvetaeva non sapeva niente di tutto ciò, continuando a credere che il marito non potesse essere un assassino.
La Cvetaeva decise infine di tornare in Russia, dove non c’era per lei più possibilità di lavorare. Anche se ricevette omaggi da parte di alcuni dei suoi vecchi amici, come ad esempio Krucenich, la poetessa venne allontanata da ogni circolo letterario, poiché essa era vista come una traditrice del partito, un’emigrata. Essa venne spedita a Golicyno e in seguito ad Elabuga, dove visse in completa solitudine.
Il 31 agosto 1941, Marina Cvetaeva salì su una sedia e si impiccò. Lasciò un biglietto, scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò al funerale e nessuno seppe il luogo dove venne sepolta.
Le sue poesie uniscono un uso tradizionale della lingua ad un modo di fare eccentrico ed esuberante. Essa risentì l’influenza di Majakovskij, Pasternak e di Puškin.
La poetessa, che divenne celebre molto tempo dopo la sua morte, lascia un’eredità indiscussa soprattutto per quanto riguarda la visione personale che essa aveva dell’amore. Difatti, essa vedeva l’amore come lontananza, libertà e fedeltà dell’anima. Questa frase lo testimonia: “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga”.
Cosa può insegnarci Marina Cvetaeva attraverso le sue poesie? Sicuramente una visione del mondo e dell’amore differente da quella a cui siamo abituati normalmente. Essa visse infatti con il suo carettere ribelle in una Russia tradizionale, poco aperta a visioni alternative.